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Avevo bisogno di scrivere questo numero e quindi senza regolarità e senza senso eccoci qui. Ci sono stati un sacco di iscritti in questi giorni non so da quale fonte, in ogni modo benvenuti e grazie.
Il numero di oggi si concluderà, non con proposte, ma con delle domande. Chi vorrà potrà poi commentare, o se preferisce scrivermi una mail, per proporre le sue idee a riguardo. Anche perché, come credo sarà evidente, i temi di cui parleremo oggi sono temi che la vita ti costringe a guardare e affrontare, e da cui, di conseguenza, non credo ci si possa nascondere per sempre.
Comincio.
Vi è un passo in cui Milan Kundera suddivide le persone in categorie utilizzando come criterio il “tipo di sguardo sotto il quale vogliamo vivere”. Questi gruppi sono quattro.
I primi sono gli attori: coloro che desiderano costantemente di essere sotto lo sguardo di un pubblico sconosciuto - sono coloro che vivono per la luce dei riflettori. La seconda categoria è, invece, quella di coloro che per vivere hanno bisogno dello sguardo di molti occhi, ma di occhi conosciuti. Kundera li chiama “gli instancabili organizzatori di cocktail e di cene”, e per lui sono i più felici. Vi è poi la terza categoria: quelli che hanno bisogno di essere sotto gli occhi della persona amata. Questi sono i più in pericolo, ovviamente. E infine vi sono i “sognatori”: quelli che vivono sotto lo sguardo immaginario di persone assenti.
Trovo questa idea letterariamente bellissima. Inoltre, anche da un punto di vista filosofico, è semplice constatare che il senso di ciò che facciamo è dato in gran parte dagli occhi che ci guardano.
Su un’isola deserta possiamo fare qualsiasi cosa, ma quella cosa rimarrà totalmente insensata. Perché non c’è nessun altro che possa guardarla, donandole significato. É la condanna dell’intersoggettività.
C’è una celebre frase sulla felicità tratta da un film che conoscerete sicuramente che la racchiude forse in modo banale ma efficace. Mi permetto di parafrasarla:
Soli su un’isola deserta non si può essere felici (sensati).
Vorrei riflettere sulla suddivisione di Kundera, giocandoci ma mantenendone il criterio. La mia idea è che la terza categoria sia antecendente alle altre. L’occhio di chi ami è l’occhio primitivo. É l’occhio che dona il senso a ciò che fai ed è l’occhio che ha sostituito Dio. É l’occhio sempre presente anche nell’assenza, è l’occhio dei buongiorni e delle buonenotti. É l’occhio che ti vede senza guardarti. É l’occhio che ti tiene vivo durante l’insonnia.
É l’occhio di tuo padre, di tua madre, del tuo migliore amico, dell’amore della tua vita. Le altre suddivisioni che Kundera fa sono successive, irrilevanti, relativi a piani più superficiali. Mentre la categoria primitiva degli occhi di chi ami, che mi viene letterariamente da chiamare “dell’occhio divino” (ma non religioso) precede tutte le altre. Senza quegli occhi, non esiste pubblico che assuma importanza. Sono gli occhi onnipresenti.
Non esiste attore che possa sopravvivere solo tra pupille di persone mai viste. Senza gli occhi dell’amore nessuno può salire su nessun palco. Negli occhi dell’amore è nascosto il disgusto e l’insensatezza che l’uomo prova nella solitudine.
Questo insieme di pupille divine (che ognuno nel proprio cuore può individuare e definire, secondo me, facilmente) ci danno identità e sicurezza. Quelle pupille sono la base della nostra quotidianità. Sono il pavimento su cui camminiamo ogni mattina per andare a lavoro, sono la sedia che ci tiene dritti mentre passiamo mesi sui libri.
É un attimo dimenticarsene. Ma basta un semplice esperimento mentale, che vi invito a fare ora dopo aver individuato i vostri occhi divini, per accorgersene. Chi chiami dopo che è successo qualcosa di importante? A chi confidi davvero ciò che sei? Ora immagina che all’improvviso scompaia per sempre.
Perché, ahimé, la vita è infame. La morte è parte della vita. Le rotture sono parte della vita. E quindi per tutti arrivano i momenti in cui due o quattro o persino tutti gli occhi divini vengono meno, magari contemporaneamente. Le persone muoiono, se ne vanno, fanno scelte o sono obbligate a fare scelte.
E allora il loro sguardo significante scompare, molte di quelle pupille si chiudono e o si riaprono su qualcun altro o non si riaprono mai più. La sedia viene tolta, e si cade per terra. Il pavimento scompare, e a lavoro non riusciamo più ad andarci. Nell’insonnia siamo nel vuoto e al freddo. Ci sentiamo sull’isola, da soli a chiederci come cazzo facevamo a muoverci, a produrre, a vivere così tanto fino a pochi momenti prima.
Come fare? Come superare la perdita di occhi divini? Come uscirne? Col tempo? Con la sostituzione? Vi è un numero minimo di occhi divini? Quanti ne servono due? Quattro? E perché quando quell’occhio scompare soffriamo così tanto?
La verità è che non ne ho idea.
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Son già qui che penso chi sono gli occhi divini in questa fase della mia vita..