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Siamo alla ventesima newsletter! Da quando il progetto è iniziato la newsletter non è mancata nemmeno una domenica: un grazie sincero a chi ha creduto in Autarkeia sin dall’inizio.
Oggi una riflessione un po’ più leggera: lanciamo una sana polemichetta domenicale come si è soliti fare sulla nostra italica penisola. Mi sono reso conto che ultimamente ho scritto numeri molto densi, oggi respiriamo un po’.
Iniziamo.
Chi sa di essere profondo si sforza di essere chiaro; chi vorrebbe apparire profondo alla moltitudine, si sforza di essere oscuro. Perché la moltitudine ritiene profondo tutto ciò di cui non può vedere il fondo: ha perciò paura e va in acqua malvolentieri.
Friedrich Nietzsche
Tra la molta immondizia della rete, un particolare tipo di contenuti mi ha sempre particolarmente irritato (anche se meno dei webinar gratuiti dei sedicenti guru dell’online marketing): tutta quella fascia di prodotti, sia video che scritti, che costantemente vengono pompati dall’algoritmo e che hanno titoli del tipo:
“Leggere un libro alla settimana cambierà la tua vita”
“I dieci trucchi per leggere un libro al giorno”
“Leggi 5 libri al mese e diventerai più intelligente”
“Come leggere 60 libri all’anno” (dove l’ho già visto questo?)
Seppure queste etichette abbiano un forte fascino, contenuti di questo tipo hanno un problema di fondo che li rende irricevibili e, soprattutto, dannosi. Proviamo a ragionare assieme sul senso del “divorare libri” e sulla differenza tra lettura di qualità e di quantità. Iniziamo con una citazione.
Nel suo più celebre romanzo, Milan Kundera, in un dialogo tra Sabina (una pittrice) e Franz (un professore universitario), cioè due dei personaggi del cosiddetto quartetto di Kundera, mette in bocca a Franz una critica all’eccessiva produzione di testi nel mondo contemporaneo:
In una società ricca, la gente non è costretta a lavorare manualmente e si dedica all’attività intellettuale. Aumentano le università e aumentano gli studenti. Per potersi laureare, bisogna trovare argomenti per le tesi di laurea. Gli argomenti sono una quantità infinita perché è possibile scrivere tesi su ogni cosa al mondo. Risme su risme di fogli scritti si accumulano negli archivi, che sono più tristi dei cimiteri, perché non ci entra nessuno nemmeno il giorno dei morti. La cultura scompare nell’abbondanza della sovrapproduzione, nella valanga dei segni, nella follia della quantità. Ecco perchè ti dico che un libro vietato nel tuo vecchio paese significa infinitamente di più dei miliardi di parole vomitati dalle nostre università.
Sebbene vada constatata la positività insita nel fatto che sempre più persone possano accedere a studi superiori, è innegabile che la cultura accademica sia sempre più contraddistinta da una pervasiva follia della quantità. Ambiti di specializzazione sempre più specifici, discipline sempre più numerose e particolari, approfondimenti su micro-angoli sempre più piccoli dello scibile umano, esami con centinaia di iscritti, migliaia di tesi ogni semestre, aule talmente piene da doversi sedere per terra: chiunque abbia vissuto l’ambiente universitario ha assistito a situazioni di questo tipo. Inoltre, all’università che uno frequenta vanno aggiunte tutte le università italiane. A tutte le università italiane le università europee, e avanti ancora. Il risultato che emerge da questo calcolo è uno spropositato agglomerato di prodotti intellettuali, talmente grande che, come dice Kundera, “la cultura scompare nell’abbondanza della sovrapproduzione”.
Questo discorso può essere allargato al mondo dell’industria culturale in generale, oltre l’ambito universitario. Nel 2019, solo in Italia, sono stati pubblicati 78279 libri (s e t t a n t o t t o m i l a d u e c e n t o s e t t a n t a n o v e): un numero inconcepibile. Ma possiamo allargarci ancora, al sistema economico in generale, e constatare che in Cina ogni giorno vengono prodotti 60 milioni di contenitori alimentari di plastica, ogni anno McDonald’s cuoce e vende 2 miliardi e 360 milioni di hamburger, mentre l’ONU stima che la popolazione umana nel 2100 toccherà i 10 miliardi di individui.
Eccola, la follia della quantità. Nel nostro mondo tutto è tanto: il senso della misura ci è estraneo. Ed è in questo contesto che va considerata la lettura: leggere si rivela essere un anacronistico atto controcorrente, un’azione che contrasta le caratteristiche del nostro tempo. Leggere è rallentare, è accettazione della complessità e vittoria della qualità: costringe ad avere pazienza, impedisce di consumare qualcosa in pochi secondi per poi buttarlo via. E, soprattutto, leggere significa sviluppare un’unicità, nel senso di una costruzione di qualcosa che si sottrae alla logica della mera quantità. Proviamo a capire in cosa consista questa unicità.
L’incontro tra autore e lettore non è (quasi) mai un rapporto attivo-passivo di ricezione. L’unione del concetto scritto con la soggettività di chi legge è un’inesauribile fonte di produzione di nuovi stimoli intellettuali. Stimoli privati e immateriali che cambiano necessariamente di lettore in lettore. E questo perchè ogni persona che apre un libro, lo apre portandosi dietro il suo personale bagaglio di esperienze e di caratteristiche individuali: ne consegue che l’incontro tra l’autore che esprime concetti e la comprensione di quei concetti da parte del lettore hanno un’inestinguibile fertilità.
Ciò che mi preme sottolineare è che non è la lettura in sé l’aspetto fondamentale di questo discorso, ma la comprensione. I concetti, nonostante vengano espressi in parole e le parole sembrino immobili, non sono mai qualcosa di statico, come se fossero rinchiusi in definizioni lapidarie: i concetti sono, parafrasando una celebre frase, “metà di chi ascolta e metà di chi parla”. E ciò che li rende dinamici è appunto chi li comprende. Ed è per questo che la lettura non può consistere nello scorrere con gli occhi della mente file di parole frettolosamente. Sebbene prose diverse abbiano densità diverse, e quindi necessitino di differenti gradi di concentrazione, la comprensione, intesa in senso generale, deve essere il fine in senso stretto della lettura.
E qual è la condizione necessaria, e che quindi non può mancare, perché si dia comprensione di un testo? Il tempo. La lettura non è una gara: non si deve mirare a leggere più libri possibili. Perché non è il leggere tanti libri a fornirti strumenti concettuali, men che meno a renderti intelligente. É il come quei libri vengono letti a contare davvero. Si può imparare di più stando un anno intero sulla stessa pagina che leggendo di fretta 5 libri in una settimana.
Correre per raggiungere il nuovo record di libri letti in una settimana non serve a niente, a quel punto è meglio fare altro. La lettura necessita di tempo, attenzione, fatica e spesso di ri-lettura. Non ci sono formule magiche o “liste di trucchetti”. Si possono certamente sviluppare dei metodi per avere maggiore costanza, ma non è questo il punto. Si deve capire che è sempre preferibile leggere un libro in meno ma capire una pagina in più, piuttosto che il contrario.
Per tutti questi motivi, l’idea di convincere le persone a divorare più libri possibili per far credere loro che questo magicamente li conduca a diventare Albert Einstein non mi sembra nient’altro che un modo (banale) di racimolare qualche click in più. Non sarà l’aver letto 60 libri in un anno a cambiarti la vita, ma ciò che hai compreso in quei libri, quello che ha prodotto in te il capire i concetti in essi organizzati. Ma questo non è un tesoro nascosto nella quantità dei libri letti, ma nella qualità della lettura, e quindi nell’azione e nel tempo che il lettore stesso investe nel libro.
Questo non significa che si debbano leggere solo romanzi di 1000 pagine o trattati di gnoseologia, non è questa l’idea. Una lettura di qualità fatta di pazienza e comprensione dà i suoi frutti su qualunque testo. In più, spesso un libro scritto male o che espone idee con cui non siamo d’accordo è ancora più fertile rispetto a un limpido libro di ovvietà. Ricordiamoci che molte volte la storia della letteratura e della saggistica è stata fatta da chi ha rotto i paradigmi del suo tempo, scrivendo contenuti che, ad una prima occhiata, facevano storcere il naso a chi li aveva tra le mani e che rompevano con la tradizione.
E allora vorrei oppormi a questa tendenza, radicata soprattutto in quei mondi tutti digital e smart reading. Perché questa concezione dei libri non mi sembra altro che un tentativo di affogare la lettura, il momento di qualità per eccellenza, nella follia della quantità che ha già pervasivamente ricoperto molti degli aspetti delle nostre vite. Ed è per questo che diffondere il messaggio di una lettura fatta di numeri, di libri letti al mese e di pagine sfogliate al giorno, propinando l’idea che leggere un libro alla settimana cambierà la nostra vita, non mi sembra essere solo sbagliata, ma, a suo modo, dannosa.
Come vi avevo promesso, oggi una riflessione più breve e “leggera”. Se l’hai apprezzata, sai cosa fare.
E ora i consigli:
Collegandomi all’argomento della riflessione, i modi per appuntarsi ciò che si legge sono infiniti. Non penso ce ne sia in assoluto uno migliore e uno peggiore, ma che si debba andare per tentativi (io ho cambiato metodo tantissime volte). Oltre a prendere tanti appunti sui libri e ad appuntarmi i concetti in vari quaderni, mi segno i libri che leggo su questa Moleskine. Costa un po’, ma a me piace moltissimo.
Il modello di mascolinità tossica con cui spesso cresciamo ha conseguenze negative anche sui giovani maschi. Sull’Atlantic è uscito un bellissimo pezzo di Peggy Orenstein intitolato The miseducation of the american boy che riflette, basandosi su dati empirici, sugli effetti che il machismo ha sui bambini.
Rimanendo in tema dati, su Lavoce.info è uscito un articolo su come sviluppare politiche pubbliche efficaci: non si può non passare dall’evidenza empirica.
Cosa significa Big Bang? E chi ha scelto questo nome? Significa davvero “grande botto”? I filosofi non fanno una bella figura da questa storia. Sul Tascabile è uscito un bel pezzo a riguardo scritto da Peppe Lepore, fisico.
Il blocco del canale di Suez per alcuni giorni causato dalla gigantesca nave Ever Given ha condotto a miliardi di dollari di perdite economiche, fatto comprensibile se si che considera che da lì passa il 12% delle merci mondiali. Ma che cos’è il canale di Suez? Quando e da chi è stato scavato? Per realizzarlo morirono migliaia di uomini. La storia del canale, sul Post.
As always, i libri.
Ti è piaciuto questo numero? Dietro ci sono io, Daniele. Studio filosofia a Bologna e gestisco interamente da solo il progetto. Autarkeia vive dell’apprezzamento della community. Vorresti supportare il progetto e valorizzare le decine di ore settimanali che stanno dietro a ogni numero? Ci sono due modi per farlo:
Puoi regalarmi un libro che userò per produrre nuovi contenuti: sceglilo cliccando qui sotto!
David Livingstone, di Tim Jeal
Se amate le biografie, la storia dell’esploratore David Livingstone è straordinaria. Nato nel 1813, trascorse gran parte della sua vita nel continente africano. Scoprì le cascate Vittoria e fu uno dei primi europei a compiere un viaggio transcontinentale attraverso l’Africa.
Io gli voglio particolarmente bene perché sulla sua vita scrissi la tesina delle superiori (che nessun professore ascoltò, sigh).
Il vecchio e il mare, di Ernest Hemingway
Questo racconto inganna. Breve, apparentemente semplice e lineare, a una prima lettura può lasciare un po’ di amaro in bocca: “Tutto qui?”. Ed è in quel momento che vale la pena ricominciarlo da capo e apprezzarne più a fondo la potenza.
Ecco un libro che va ri-letto.
Abbiamo finito. Sono un po’ sommerso dalle cose, tra università e pandemia, ma… teniamo duro.
Grazie di leggermi sempre e buona settimana,
Daniele
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