Dove il tuo occhio non arriva
Un dialogo sul carcere e la libertà con Nicola Rabbi, giornalista
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Eccoci. Oggi pubblico il secondo numero di questa newsletter con un ospite: Nicola Rabbi. Sono molto contento di fare sensibilizzazione su questi temi, fatemi sapete cosa ne pensate.
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Le mie parole sono in grassetto, quelle di Nicola in tondo. Iniziamo.
Nicola, vorrei partire riflettendo sulla funzione che costituzionalmente dovrebbe avere il carcere, confrontandola con quella che ha nella realtà. L’articolo 27 della Costituzione Italiana recita:
Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
Quale interpretazione dobbiamo dare alla parola “rieducazione”?
Questa è una domanda molto complessa. Possiamo tentare di esporre alcune riflessioni che probabilmente i padri costituenti avevano in mente. In Italia abbiamo una lunga tradizione di riflessione sul concetto di pena: in primo luogo Cesare Beccaria, ma non solo. Siamo una nazione che ha riflettuto a lungo su questi temi, e questo si riflette nei nostri principi costituzionali. Il concetto di rieducazione vuole ampliare l’idea di detenzione punitiva: il carcere non sarebbe esclusivamente una punizione, ma un modo per far comprendere a chi ha compiuto un reato ciò che cha fatto, fare in modo che non ricaschi nello stesso errore, per infine reinserirlo nella società, così che possa dare un contributo positivo alla collettività. Tuttavia, vedendo la concreta situazione delle carceri, questi discorsi fanno tristemente ridere: tutto questo non accade, non solo in Italia, ma in generale nel mondo.
La reclusione di massa è un’invenzione moderna di uno stato efficiente e organizzato in modo complesso: non dobbiamo pensare che sia una soluzione definitiva e immodificabile. Tuttavia, questi pensieri riformatori vanno contro a una mentalità diffusa che la pensa in maniera molto diversa. Spesso sentiamo dire frasi del tipo:
Ma come è possibile che dopo quel crimine abbia scontato solo 15 anni di carcere?
Riflettiamo su questa affermazione. Riusciamo a immaginare 15 anni di vita nella stessa stanza? No, non ci riusciamo. 15 anni nella stessa stanza, in un mondo grigio, senza odori, colori e gusti ti trasformano: certe esperienze bisogna vederle, viverle nella carne per riuscire a comprenderle davvero. Spesso sui media tradizionali si alzano polemiche perché a un assassino è stata concessa una libera uscita dopo decine di anni di carcere. Dobbiamo cercare di essere razionali e pensare in maniera etica. Io credo che non sia accettabile pensare di negare di principio a una persona, a prescindere da ciò che ha commesso, ciò che la legge gli garantisce di fatto: dagli sconti di pena ai permessi di uscita. Si tratta di umanità, e di garantire principi etici.
Pensiamo per esempio all’idea di ergastolo: come può coesistere con un principio di rieducazione? Che rieducazione puoi dare a una persona che per tutta la vita rimarrà in carcere? Nessuna. Ovviamente questo è un discorso molto controverso, con pro e contro, che tuttavia andrebbe affrontato razionalmente. Culturalmente il cittadino italiano pensa la pena come un momento di punizione, in cui il condannato viene nascosto sotto il tappeto e rinchiuso: e a quel punto non se ne vuole sapere più niente. Questa mentalità va però riconosciuta in quanto tale, in rapporto alla particolare storia della repubblica.
Esatto. La cultura giustizialista diffusa in Italia ha radici concrete che vanno guardate in faccia: partendo dal problema della criminalità organizzata, passando dalla violenza degli anni di piombo, arrivando fino alla corruzione emersa dallo scandalo di Mani Pulite. Il senso comune ha digerito questi eventi, vomitandoli fuori e affermando una stringente necessità di mano forte armata di bastone che punisca i corrotti e i criminali in difesa della collettività, il tutto immerso in un diffuso senso di ingiustizia. In un’aria così tesa, dichiararsi garantisti e affermare che “nessuno è colpevole fino a prova contraria” diventa qualcosa da nascondere. I problemi vanno compresi, non etichettati con supponenza e guardati con moralismo.
Sì, sono d’accordo. A questo si collega quello che secondo me è un difetto della cultura di sinistra, che tradizionalmente dovrebbe essere la corrente politica più vicina a questi temi. “Siamo tutti amici, abbracciamoci” è uno slogan vuoto: le cose sono complesse. Qui non stiamo dicendo “dobbiamo tutti abbracciarci, cittadini e detenuti, e vivere felicemente”. Le persone in carcere non sono innocenti: hanno commesso reati, a volte molto gravi. Capirci, comprenderci è problematico. Quando vieni a contatto con certe situazioni ti rendi conto che ci sono distanze molto difficilmente colmabili. La retorica del “sono tutte vittime e vanno difese” è un approccio sbagliato. Spesso anche i volontari cadono in queste ingenuità, e i detenuti se ne approfittano.
Questo è molto interessante. Io credo che sia proprio questo atteggiamento della sinistra ad avere offerto il fianco a quella retorica nazional-populista che ha fondato l’orrendo concetto di “buonismo”, cioè l’idea che vi siano persone ingenuamente troppo buone. Questi slogan hanno le loro radici proprio in questo modo di fare della politica di sinistra che sembra voler affrontare ideologicamente e non pragmaticamente i problemi.
Sì, son d’accordo. Vanno però ricordate alcune cose: in carcere vanno gli ultimi, i poveri, gli ignoranti, chi non ha reddito e chi non ha studiato. E questo è un problema che va affrontato: perché non è giusto.
I dati in questo sono inequivocabili: sui quasi 54mila carcerati attuali, i laureati sono solo 575. Mentre le persone che non hanno terminato le scuole superiori 23 786.
Sì, è sempre stato così.
Molto spesso la narrazione del carcere termina al di fuori delle mura. La persona condannata viene incarcerata, e da lì in poi non ne vogliamo sapere più niente. Dato che per alcuni anni hai fatto il volontario dentro le prigioni, ci racconti cosa si prova dentro le carceri? Perché il principio costituzionale di rieducazione non viene perseguito?
Vedere la galera da dentro ti permette di prendere consapevolezza su molte cose. Ti trovi di fronte a persone con una vita completamente distrutta, priva di qualsiasi dignità. Una volta una ragazza che lavorava con me, mentre camminavamo in questi lunghi corridoi grigi, freddi d’inverno e afosi d’estate, mi disse che le carceri sembrano degli “asili nido tristi”. Gli uomini vengono trattati come bambini che non possono fare nulla e sono privi di qualunque autonomia. Si vive in questa sorta di limbo in cui il tempo non passa mai e si perde il senso delle cose. Si perde il senso dell’olfatto, il senso del gusto. Ci si aliena completamente dal contesto sociale e dalla comunità da cui si proviene. Si perdono il domicilio, gli affetti, il lavoro. Guardando realmente le cose come stanno si capisce perchè una percentuale altissima di ex-carcerati torna a delinquere (la cosiddetta recidiva): escono dal carcere e non hanno nulla. Moltissimi di loro iniziano a dormire per strada, entrano in contatto con la criminalità organizzata, vengono sfruttati. Spesso non hanno altra scelta. Questa sarebbe la rieducazione?
Se le cose vanno così, come può avvenire un reinserimento nel tessuto collettivo? Le libere uscite che spesso suscitano l’indignazione pubblica sono l’unico piccolo passo che va nella direzione giusta. Permettono di non alienarsi completamente dalla sfera sociale. Quella fiducia va data. Faccio un esempio concreto che rende bene l’idea. Una volta un carcerato che non usciva da 10 anni dall’istituto penale mi raccontò che una volta ottenuta la sua prima libera uscita non riusciva a spiegarsi perchè tutti tenessero la testa china sui cellulari, gli sembravano tutti impazziti. Mi disse che aveva cercato un telefono a gettoni. Parliamo di questo tipo di estraneità: un’alienazione che si risolve in una fortissima solitudine. Ti erode dentro: soprattutto oggi, che il mondo corre a velocità impensabili.
Come migliorare le cose? Come rieducare?
I motivi per cui le cose vanno così sono molteplici. In primo luogo fisici: in Italia vi è il cronico problema del sovraffollamento delle celle. Quando i detenuti sono troppi, molte attività rieducative diventano impossibili da attuare.
Oltre ai problemi della struttura carceraria, questo sovraffollamento è dovuto a precise scelte legislative: quando vengono fatte leggi che criminalizzano la clandestinità o chi fa uso di droga senza spacciarla, le carceri si riempiono di persone. Il problema è allora anche di chi sta al potere e delle scelte politiche che vengono perseguite.
Su questo mi sento molto disilluso. I cambiamenti politici sono conseguenze di cambiamenti culturali. Fino a quando non ci sarà un cambiamento di mentalità da parte della cittadinanza, la politica sarà completamente disinteressata a risolvere questi problemi.
Questo è molto vero, e infatti le cause culturali di cui parlavamo prima sono un ostacolo fondamentale all’attuazione concreta del principio di rieducazione. Dobbiamo sempre ricordarci che siamo noi, come cittadini, a esprimere questa classe dirigente.
Un altro aspetto da prendere in considerazione per migliorare la situazione riguarda la formazione di chi lavora dentro il carcere. Spesso in questi ambienti si formano dei mondi paralleli che vanno spezzati. Queste bolle vanno rotte, per fare in modo che il carcere non sia un mondo distinto dal mondo al di fuori. C’è un sacco bisogno di persone giovani, che portino ciò che sanno fare dentro a quelle mura, che trasportino freschezza: le persone che vengono da fuori, esterne all’ambiente, sono fondamentali per i detenuti.
Osservando i dati, un’altra cosa che mi stupisce sempre sono i numeri delle donne. La popolazione carceraria femminile corrisponde a 2252 unità, su più di 53mila totali. Come spiegare questi numeri incredibili?
È difficile dare una risposta definitiva a questa domanda. Probabilmente la causa principale è l’educazione culturale e di genere. Generalizzando molto, gli uomini vengono educati a rispondere con la violenza ai problemi, a essere volitivi e a perseguire i propri obiettivi a tutti costi. Le donne vengono indirizzate verso l’assistenza e verso la cura dei rapporti. Fare discorsi biologici è insensato, non vi è alcuna propensione a delinquere basata sul sesso. È il contesto culturale a generare questi dati, che effettivamente fanno molto riflettere.
È un discorso simile a quello che andrebbe fatto riguardo agli stranieri. Nel 2020 i detenuti non italiani erano 17 306, una fetta molto grande non proporzionata rispetto al numero di stranieri in Italia. E questo punto deve essere problematizzato: non per teorizzare una qualche infondata e ridicola propensione antropologico-razziale al delinquere, ma per evidenziare un problema che c’è e va visto. E quel problema è l’integrazione, non “lo straniero criminale”: accogliere senza integrare, come liberare dal carcere senza reinserire, porta a problemi che vanno affrontati. E ritorniamo così a quel “siamo tutti fratelli” della cultura di sinistra che si rivela essere uno slogan vuoto.
Esatto, sono d’accordo. Per concludere mi piacerebbe parlare di un concetto su cui in questi anni si dibatte molto, soprattutto nel mondo anglosassone: la giustizia riparativa. L’idea è favorire una sorta di riconciliazione tra la vittima e colui che ha commesso il reato: attraverso la conoscenza, il dialogo e il confronto diretto. Questo costringe chi ha sbagliato a guardare in faccia e a confrontarsi con la persona a cui ha causato sofferenza. Questo modello, oltre a favorire una presa di consapevolezza da parte del condannato, spesso aiuta anche a pacificare l’interiorità della vittima, a superare il proprio trauma.
Chiudo con un consiglio: “La parte degli angeli” di Ken Loach. Un film che rende carne questi concetti.
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Vi lascio un po’ di link per approfondire questi temi:
L’associazione Antigone ogni anno stila un rapporto sulla situazione carceraria in Italia. È appena uscito quello per il 2020/2021.
A proposito di Antigone, l’associazione più importante in Italia per i diritti e le garanzie nel sistema penale compie 30 anni. Hanno lanciato una raccolta fondi che sono contento di sostenere. La trovate qui, se volete dare una mano.
Ultimamente sono usciti due video molto belli che parlano di sistema penale e diritti dei carcerati. Se masticate l’inglese, vi consiglio “Capital Punishment (& Prison Abolition)” di Philosophy Tube. In italiano invece, vi rimando a “Perché dovremmo abolire il carcere” di GioPizzi, un bel video, anche se penso abbia molti punti deboli, prendetelo cum grano salis.
Infine, se siete interessati a fare volontariato con i detenuti vi lascio due contatti (entrambi a Bologna perché sfortunatamente non ne conosco altri). Il primo è il Teatro del Pratello, che “lavora da oltre 18 anni con progetti di teatro carcere, rivolti sia a minori che ad adulti, detenuti o con misure alternative”. Il secondo è il Centro Poggeschi.
Come ogni volta che abbiamo un ospite, i libri sono suoi suggerimenti. Ecco i consigli di lettura di Nicola Rabbi.
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Le prigioni degli altri, di Adriano Sofri
“Il racconto da parte di Sofri della sua esperienza da carcerato nell’estate del 1988: è un ottimo modo per conoscere meglio quella realtà”.
“Un romanzo complesso, ma straordinario. Molto interessante è la riflessione sulla inutilità a cui vanno incontro alcune costruzioni edili, dopo secoli dalla loro costruzione. Mi ha fatto pensare a coloro che vedranno i carceri tra 300 anni e penseranno - ma come erano brutti e inutili costruiti così, sono così poco umani -”.
E anche oggi abbiamo finito. Il numero di prossima settimana lo sceglieremo assieme su Instagram, quindi se non lo hai ancora fatto, seguimi qui! Ti ricordo di dare un’occhiata all’Autarkeia Wishlist, se ti piacerebbe valorizzare il mio lavoro.
Noi ci risentiamo domenica: buona settimana e buona fortuna,
Daniele
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