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Eccoci qui. Nella mia esperienza da tutor sto conoscendo molti ragazzi e ragazze che hanno appena iniziato a studiare filosofia e che mi stanno arricchendo molto. Ci tenevo a citarli: questo numero è per loro e per tutte le ansie e le insicurezze che studiare questa dannata materia causa.
Per curiosità sono andato a contare quante newsletter ho scritto fino ad oggi: e casualmente questa è la cinquantesima. Faccio un po’ fatica a credere che ho scritto 50 newsletter, però è così. Se apprezzate il mio lavoro, e volete valorizzare la quantità di ore che c’è dietro, condividete e consigliate Autarkeia in giro. Non ho modi oltre a questo per diffonderla e darle valore aggiunto.
Ultimamente uno dei migliori metodi con cui alcune persone mi hanno aiutato a diffondere Autarkeia è il seguente: inviando il loro numero preferito della newsletter nei gruppi whatsapp del proprio corso all’università (cioè il target più affine con quello di cui parliamo qui) e consigliando l’iscrizione. Se vi va, grazie!
Cominciamo.
Il pensiero che fonda la riflessione di oggi non è mio. Quindi partiamo da una piccola premessa narrativa per ripagarne il debito.
Qualche anno fa venni invitato dal direttore di una piccola rivista con cui collaboravo alla presentazione di un libro da lui tenuta con l’autore. Si parlava di letteratura italiana contemporanea e, tra i vari autori di cui si sarebbe trattato, si parlava di Tondelli: come potete quindi immaginare ero felice di andare.
Era un bel posto. In un piccolo locale in porta San Felice a Bologna, all’aperto. L’autore era un giovane specialista, ed era piacevole sentirlo parlare mentre bevevi uno spritz. Tra le tante cose che vennero dette, una frase mi colpì tanto che non me la sarei più scordata. E infatti ancora oggi mi ronza spesso in testa. Il numero di oggi non è altro che l’insieme di riflessioni che si sono stratificate nella mia testa a partire da quella tesi.
Il maschio non ha ricevuto l’oppressione necessaria a una reale presa di consapevolezza del proprio ruolo sociale, culturale e di genere.
Qual è l’idea di fondo? Che determinati segmenti della società che hanno subito secoli di oppressione (come le donne o la comunità nera) abbiano preso forte consapevolezza di sé costretti dalle condizioni in cui erano stati schiacciati. Quella presa di consapevolezza era necessaria per potersi rialzare e liberare dalle catene (fisiche e psicologiche) in cui per decenni erano stati rinchiusi.
Non che quelle catene siano scomparse del tutto: ma le cose vanno, lentamente, sempre meglio. La mia generazione ha una sensibilità fortissima per questi temi. A lezione mi sono state fatte più volte lezioni fuori programma su inclusività e linguaggio, genere e società. Il mio piano di studi presenta corsi interi sulla filosofia femminista e sulla storia dell’oppressione patriarcale. Ed è bellissimo che sia così e ne vado fiero.
Il punto è che trovo molto acuta l’osservazione per cui questo tipo di consapevolezza (già ben radicato nelle aule accademiche e che spero si diffonda sempre più capillarmente nella società tutta) sorga anche dall’oppressione che quei segmenti della società hanno dovuto subire nel sangue.
Il passaggio successivo allora è: in questo contesti, come si modifica il ruolo di chi appartiene al segmento degli storici oppressori?
Questa è una bella domanda. E il mio punto è proprio: non lo sappiamo, o meglio, non ci pensiamo abbastanza. La riflessione si è concentrata giustamente prima sull’emergenza. E l’emergenza era, per esempio, che fino a 60 anni fa in Italia esisteva ancora il delitto d’onore, o che a metà del secolo scorso ancora esisteva lo sfruttamente coloniale.
Ma una riflessione sull’uomo va fatta ora. E dobbiamo sforzarci per farla. Le prese di consapevolezza che sono state raggiunte da parte dei segmenti oppressi della società devono ergersi ad esempio. Esempio del fatto che sia possibile una vera e propria liberazione dalle camicie di forza che le aspettative sociali ci costringono addosso, e che accettiamo come dogmi inattaccabili.
E questo lo dico da persona che ha sofferto molte volte l’inadeguatezza verso il proprio supposto ruolo canonico di genere. Non esistono gradi di mascolinità. Esistono gerarchie morali di riferimento a cui si deve cercare di attenersi, in base alla propria storia e ai propri valori. Non si è meno uomini, non si è meno maschi se non si rispettano determinati standard che sono totalmente (ed è qui il punto) relativi. Ora proverò a fare degli esempi per spiegarmi meglio e dare un po’ di concretezza a questi pensieri.
Immaginiamo un uomo che si sposa con una donna con un alto reddito. Insieme hanno dei figli e una casa. Lo stipendio della moglie è sufficiente al mantenimento della famiglia. L’uomo ha un lavoro che non lo soddisfa e sente che per la sua felicità e per quello che egli prova, ciò che più lo renderebbe soddisfatto e fulfilled è stare a casa con la famiglia, e dedicarsi a tempo pieno a quello. Per quale motivo dovrebbe sentirsi giudicato dagli altri? Perché non dovrebbe sentirsi libero di scegliere ciò che pensa lo farebbe felice? Perché dovrebbe essere “meno” uomo nel dedicarsi totalmente ai suoi figli e alla cura della famiglia?
Altro mondo possibile. Un uomo viene aggredito e picchiato. Si sente umiliato e ferito nella sua mascolinità. Sente che dovrebbe iscriversi a un corso di pugilato, imparare a picchiare e fare vedere agli altri che lui è quello più forte, più “animale”. Ma poi si ascolta e pensa: no, decide che no, lui non ha alcuna intenzione di iscriversi a un corso di boxe per dimostrare di essere il più forte della tribù. Che ama qualcos’altro nella vita: che non vuole prevaricare fisicamente sugli altri, non gli interessa. Perché dovrebbe sentirsi meno adeguato? Chi lo ha detto? Perché non può semplicemente sentirsi vittima di un aggressione ingiustificata? Perché dovrebbe essere meno uomo per questo?
Non credo serva neanche esplicitare troppo quali siano le caratteristiche che culturalmente attribuiamo a un “vero” uomo e che sono totalmente in contrasto con i due esempi qui sopra. Le conosciamo tutti. La forza fisica, la capacità di picchiare ed essere quello più forte. Essere colui che porta a casa il pane e si mostra sicuro di sé e dominante.
Ma non deve essere così. Nel rispetto degli altri perché non dovremmo essere quel che sentiamo di essere? Non è questa una componente fondamentale della propria libertà? Tristemente però, penso sia palese che noi, come persone di sesso maschile, non ci siamo minimamente vicini. Anche per la pressione tra pari che ci imponiamo, per la intransigenza con cui ci giudichiamo a vicenda, per la profondità con cui queste idee di mascolinità sono insidiate in noi.
Noi uomini bianchi eterosessuali siamo coloro che hanno oppresso storicamente gli altri (e questo è un dato di fatto); e proprio per questo dobbiamo, sia a noi stessi che agli altri, uno sforzo, una tensione.
Una tensione verso una maggior libertà. Verso l’idea che non sono gli standard relativistici di genere il criterio su cui misurare il valore delle nostre identità: ma ciò che facciamo in relazione a ciò che sentiamo di voler essere e diventare. E questo vuole essere un personale contributo in quella direzione.
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Sto lavorando come vi avevo detto ad alcune cose “onlife” (come va di moda dire) che spero si concretizzino presto. Seguitemi su Instagram se volete rimanere aggiornati, che lì tendenzialmente metto tutto.
Buon lavoro e buona settimana,
Daniele
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