La filosofia è morta?
La scienza, la verità e i Greci: un dialogo con il professore Luca Guidetti
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Eccoci qui. Quello di oggi è un numero speciale: ho avuto un bellissimo dialogo con Luca Guidetti, professore di filosofia teoretica all’Università di Bologna. Mi piacerebbe molto rendere questo esperimento una rubrica fissa, intervistando di tanto in tanto professori, intellettuali e giornalisti. Se l’idea vi piace, fatemelo sapere!
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Per tutti gli altri: bentornati.
Le mie parole sono in grassetto, quelle del professore in tondo. Buona lettura.
In un’intervista del 2011 il celebre astrofisico e cosmologo Stephen Hawking ha dichiarato:
La filosofia è morta. Le questioni fondamentali che riguardano l’universo e la sua natura non possono essere risolte senza dati precisi e concreti. Perché siamo qui? Da dove proveniamo? Queste domande sono state storicamente investigate dalla filosofia. […] Ma la filosofia è morta: i filosofi non sono rimasti al passo con gli sviluppi delle scienze contemporanee, in particolare con quelli della fisica. […] Gli scienziati sono diventati i portatori della torcia nella nostra ricerca della conoscenza.
Professore, che cosa risponderebbe ad Hawking?
Quello che solleva Hawking è un problema antico quanto il pensiero occidentale. Il problema della morte della filosofia è vecchio quanto la filosofia stessa. Ogni epoca ha discusso di conflitti e convergenze tra scienza e filosofia.
Quindi le scoperte della fisica contemporanea non vanno ad intaccare le domande originarie della filosofia?
La fisica è una disciplina culturale. Ogni epoca ha le sue culture e le sue fisiche, le sue psicologie e le sue matematiche. Le scoperte della fisica contemporanea ci hanno portato a fare molti progressi, per esempio ad andare sulla Luna, ma questi sviluppi sono di tipo tecnologico, non stiamo scoprendo nuove verità assolute. La vera trasformazione dell’Occidente che ha segnato il ‘900 non consiste in una rivoluzione scientifica, ma tecnica.
Nel ‘900 è tramontato un modello di razionalità [cioè un modello con cui guardiamo e ordiniamo il mondo], che è differente dal dire che è tramontata la filosofia in toto. Potremmo intendere la civiltà occidentale come segnata da un ciclo bimillenario che inizia con i Greci e termina con la fine dell’800. La civiltà occidentale nasce infatti con i Presocratici [i primi filosofi greci precedenti a Socrate] e tramonta con il ‘900: ma a tramontare è il modello di razionalità greco, non la filosofia.
Quindi non è la filosofia a essere in crisi, ma è in crisi un modello di razionalità?
Sì, perché la filosofia non è un tipo specifico di razionalità, ma dovrebbe comprendere tutti i tipi di razionalità. Dovrebbe essere aperta a una multivocità, a una pluralità della ragione. Se viene identificata con un solo modello, allora è chiaro che quel ciclo di cui parlavamo prima è terminato: quel ciclo che nasce con l’emancipazione della ragione dal mito per indagare, liberi da un verità rivelata, in maniera razionale la realtà ha avuto inizio con Talete ed è finito con Hegel e Nietzsche. Ma questa non è una scoperta recente: già se ne parlava all’inizio del ‘900, per esempio in Il tramonto dell’Occidente di Spengler.
Hawking ragiona da scienziato. E il difetto dello scienziato, ma lo stesso si può dire per i filosofi, è di parlare di qualcosa di cui non ha conoscenza. Occorre comprendere che il discorso sulla ragione umana non si ferma alla scienza contemporanea: anche perché con ogni probabilità vi saranno altri modelli culturali di razionalità nei prossimi secoli, al di là della scienza moderna. Questo, ammesso e concesso che l’umanità possa sopravvivere nel futuro, che è tutto da vedere, dato che è ormai da un secolo e mezzo che distruggiamo la nostra polis, la Terra.
Il vero problema dell’umanità non è mettere in competizione scienza e filosofia, ma capire se c’è una possibilità di sopravvivenza per il genere umano, dato che la tecnica ha oltrepassato ogni forma di razionalità: sembra una scheggia impazzita e autonoma.
Si deve anche aggiungere che nell’ultimo secolo la scienza stessa ha compreso di non potersi porre come verità ultima. Quando parla di crisi di un modello di razionalità, questa crisi comprende anche quella scienza che vuole porsi come sapere assoluto e incontrovertibile?
Sì, però bisogna vedere se questa pretesa di universalità e necessità ci sia mai stata, sia nella filosofia che nella scienza. Il vero problema sta nel comprendere se mai si sia data una filosofia che credesse di aver trovato realmente questo sapere inconfutabile. Perché, tra i grandi filosofi, praticamente nessuno lo ha affermato. Questo deriva dalla consapevolezza del fatto che l’unica universalità e necessità la si ha nelle forme astratte, nei simboli logici: un sapere sempre vero e necessario non si dà mai nella realtà. Ma, lasciamelo dire, anche di questo gli antichi erano già consapevoli, e molti di loro si posero il problema.
Ciò che invece, secondo me, si può rimproverare alla scienza e alla filosofia contemporanea è di non avere una dimensione storica dei concetti. Molto spesso i dibattiti vengono circoscritti agli ultimi 10-20 anni, con una quasi totale ignoranza rispetto a ciò che è accaduto e di cui si è discusso in passato. Bisogna acquisire la consapevolezza che i problemi umani in realtà sono ciclici, si ripetono. E questo perché non vi sarà mai una soluzione definitiva a queste questioni, a meno che non si prendano delle posizioni di principio. Ma questi principi possono essere solo astratti. Se noi pretendiamo che questi principi astratti, come quelli della logica, parlino del mondo, ciò non sarà mai possibile.
E allora le leggi di natura? Esse sono formulazioni matematiche, e quindi astratte e create dall’uomo, che vengono applicate alla natura, e funzionano. Come è possibile? Questo non va contro ciò che lei ha appena affermato?
Le leggi di natura funzionano per quello che ci serve. Qualcosa che funziona, funziona per i nostri scopi, e perché creiamo degli strumenti proprio per realizzare quegli scopi: per scopi differenti infatti non funzionerebbero più. Bisogna capire una cosa fondamentale: non stiamo parlando di valori conoscitivi, ma parliamo di prassi. Una teoria non è mai vera in sé, in senso assoluto, una verità. Tutto dipende dagli scopi con cui io quella teoria la costruisco, e se essa è funzionale al fine per cui l’ho costruita. Questo vale anche per la matematica, la quale è spesso intesa come una forma universale di conoscenza che tutti accettano e riconoscono unanimemente, ma questo non è vero. Per esempio, il dibattito sulla natura degli enti matematici è ancora aperto. Ritorniamo così a quello che dicevamo all’inizio, perché anche la matematica contemporanea è espressione di una cultura.
Il fulcro di questo discorso sta nel constatare il fatto che non abbiamo un punto di vista esterno sulle cose: rimaniamo sempre rinchiusi nella nostra soggettività. E questo perché nessuno è riuscito ancora a dimostrare che ci sia un’esperienza ultima, assolutamente vera, definitiva, che possegga maggior valore di tutte le altre.
Hawking è un grandissimo scienziato, ma il suo errore sta nel pensare che la razionalità scientifica, poiché ha raggiunto grandi risultati di tipo tecnico e conoscitivo per quanto riguarda il cosmo e la natura, possa assorbire in sé ogni forma di razionalità e diventare la forma definitiva di conoscenza. Ma non è così: e questo perché, come abbiamo appena detto, non abbiamo una conoscenza esterna alla nostra soggettività che ci possa dire “questo è vero, questo è falso”.
Come abbiamo detto all’inizio, ciò che dice Hawking è antico quanto il pensiero: ogni grande filosofo ha espresso le proprie idee annunciando la morte della filosofia precedente. Lo ha fatto Aristotele con Platone, il Rinascimento con il Medioevo, Hegel con la filosofia prima di lui, eccetera eccetera. Il punto è che continuerà ad accadere, che la scienza lo voglia o meno.
Sembra che vi sia questo limite umano nel non riuscire a porsi nello scorrere del tempo, nel non riuscire a vedere la propria come una teoria, una cultura che ha la stessa legittimità di quelle passate, illudendosi ogni volta che la propria sia la teoria definitiva. Come se il presente fosse sempre il tempo della verità che ha surclassato la conoscenza precedente.
Possiamo dire così, se ci soddisfa. Il punto è quello che ho detto prima: la filosofia non deve rinchiudersi in se stessa, ma deve aprirsi a diverse prospettive della realtà, sia dal punto di vista storico che strutturale.
Le faccio un’altra domanda: quando un fisico teorico o un cosmologo specula su ciò che vi era prima del Big Bang, quel fisico sta facendo fisica o sta facendo filosofia?
Ti rispondo così: sta facendo quello che gli permettono i suoi strumenti, a seconda dei fini per cui li ha costruiti. Io giungo fino al punto in cui lo strumento che sto utilizzando mi permette di arrivare. Se ho degli strumenti che mi permettono di giungere fino a un certo punto, io dopo quel punto non posso più utilizzarli. Non vi sono altre risposte.
Come strumento intendiamo anche la matematica?
Certo. Se io posso vedere l’inizio dell’universo perché posso guardare nello spazio profondo, questo è grazie allo strumento che sto adoperando. Basti pensare al telescopio Hubble. Io devo arrivare fin dove lo strumento mi permette di arrivare. L’universo è finito o infinito? Beh, se lo guardiamo con i nostri mezzi, è finito. Mentre quello che possiamo indurre, comprendendo che i nostri strumenti tecnologici hanno dei limiti, ci porta a pensare che ci sia qualcosa d’altro oltre al finito.
Questo non significa che tutto è relativo. Oppure che dobbiamo essere nichilisti o scettici. Dobbiamo poi ricordiamoci sempre che lo scettico radicale è il primo dei dogmatici: quando Pirrone [il primo grande filosofo scettico antico] sostiene che non potrà mai raggiungere una verità, in questo è implicito il fatto che una verità ci sia. Lo scettico crede che vi sia qualcosa di vero in sé, ma che noi, per nostri limiti, non potremmo mai raggiungere. Rimane così quell’idea antica di una verità che va pian piano scoperta. Quell’idea per cui, svelando le illusioni, della realtà raggiungeremo le cose vere. Ed è proprio questo il modello di razionalità che è in crisi.
Ecco, riprendiamo il discorso di prima. Quello che lei dice è che la filosofia, nonostante sia nata in Grecia con un preciso modello di razionalità, oggi debba trascendere quella stessa razionalità?
Esso non va trasceso, va ricompreso. La razionalità greca è un modello di razionalità giustificato anche da determinati presupposti storici, geografici e sociali. Dobbiamo imparare questo: superare qualcosa non significa cancellarlo, ma ricomprenderlo in una nuova forma, sotto una nuova luce.
Se questo criterio non soddisfa lo scienziato, poco male. Lo scienziato non può accusare la filosofia di porsi come sapere ultimo, e poi pretendere di offrirci la visione definitiva della realtà, perché allora sta cadendo nello stesso errore di cui accusa i filosofi. Così come lo scienziato sbaglia quando accusa la filosofia di essersi da sempre librata in una sorta di trascendenza, in una dimensione al di là del reale, perché questo è vero solo per una parte della filosofia. Gran parte della storia della filosofia rifiuta e non accetta l’idea di questa trascendenza.
Sembra che molti esponenti del mondo scientifico non riescano ad accettare il fatto che la filosofia rifletta sulla scienza intendendola come uno dei tanti modelli di razionalità, non come il modello di razionalità definitivo. Non basta che essa funzioni per i nostri scopi per innalzarla a verità assoluta.
Sì, ma non bisogna fare di tutta l’erba un fascio. In molti hanno sostenuto il contrario: Popper scrisse che la scienza si basa sull’opinione, su congetture, non sulla verità. Non per forza si deve proporre quel modello fallace di scienza.
Tuttavia, è vero che spesso il difetto che la scienza commette quando travalica i suoi confini, è di porsi come una sorta di rivelazione. E, come abbiamo detto, questo è un ricadere in quello stesso errore che la scienza imputa alla filosofia.
Quando la scienza si pone come verità rivelata, sta rivelando le tracce che il cristianesimo ha lasciato in lei, come già aveva detto Nietzsche?
Sì, ma tutte queste considerazioni non devono condurci al difetto opposto. Il vero filosofo non deve respingere la scienza, ma conoscerla. Perché se devo dirti quello che penso, il vero limite della filosofia non sta nel dare verità assolute, relative, storiche o non storiche: il vero limite di molta filosofia sta nel parlare di questioni che il filosofo non conosce. Non conoscendo cosa sia un’equazione di terz’ordine si dicono delle stupidaggini.
È meglio che gli scienziati non facciano affermazioni definitive sulla filosofia e che i filosofi non parlino di scienza senza esserne competenti. Perché dobbiamo ricordarci che nemmeno i filosofi sono esenti da questa critica: importantissimi pensatori hanno voluto parlare di scienza e di matematica senza saperne abbastanza, e sono finiti nel dire scemenze totali.
Più in generale, anche pensando all’attualità in cui la comunicazione conta di più del contenuto, credo che vada recuperata l’idea di un sapere competente. E questo già ce lo ha insegnato Platone: se io devo fare una sedia, vado dall’artigiano. Se c’è da governare una città e fare politica, chiedo a chi ha sapienza dello stato.
Come dice Platone nella Repubblica, l’uomo malato deve andare dal medico e lo stato malato dal politico competente. [Su questi temi ho scritto un saggio che se vuoi puoi leggere qui.]
L’ idea che il sapere competente non sia più necessario è responsabile della grande confusione che caratterizza il nostro tempo. Con sapere competente non si deve intendere una sapere definitivo che non può essere messo in discussione, ma significa conoscere i termini e i concetti che uso quando parlo di un certo oggetto.
Questo non rischia di condurci in direzione di un mondo culturale che non sa più comunicare dentro di sé? Data l’iper-specializzazione del sapere contemporaneo, non si rischia di dividere la cultura in microcompartimenti stagni non comunicanti?
Questo problema c’é, ma anche esso è antico quanto la filosofia. Va però sottolineato che ogni ambito deve avere sue caratteristiche specifiche, altrimenti non sarebbe un ambito separato. Io non posso trattare l’ambito fisico allo stesso modo di quello psichico. Anche se c’é chi lo ha fatto, ma non è finita molto bene. Queste indebite confusioni di campo tra ambiti sfociano spesso nell’assorbimento di uno da parte dell’altro, nella riduzione, nel nostro esempio, della psicologia alla fisica.
Per giungere a una conclusione, diciamo che va acquisita la consapevolezza che non ci sia un unico e assoluto modello di razionalità, ma tanti modelli di razionalità ugualmente legittimi.
È così. La parola latina ratio [da cui deriva razionalità] non vuol dire quello che generalmente si crede: quando si parla di ratio [ragione in latino] non si intende l’approccio della ragione che conosce scientificamente la realtà. La parola ratio significa, come logos, ordine. E gli ordini che possiamo dare alla realtà sono molteplici: anche un ordine teologico è una ratio, cioè un ordine della realtà.
Il mio invito finale è questo: non limitiamoci ad usare superficialmente formule predefinite e apriamoci a una visione plurale della ragione, senza incastrarci in questa o quella visione del mondo.
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Il dialogo è terminato, spero che lo abbiate trovato interessante, e di essere stato efficace nel trasformalo da orale a scritto. So che certi passaggi possono essere stati un po’ complessi, ma in un’unica newsletter non ho abbastanza spazio per spiegare tutti i concetti: spero che il contenuto generale sia arrivato e che vi abbia stimolato.
Ho pensato fosse un bella idea chiedere al professore di consigliare lui stesso i due libri della settimana. Quindi ecco a voi i consigli di lettura del prof. Luca Guidetti.
La condizione post-moderna, di Jean-Francois Lyotard
“Libro della fine degli anni ‘70, si collega a molte delle riflessioni che abbiamo fatto oggi. Penso sia più interessante l’analisi critica rispetto alla proposta teorica di Lyotard. E per questo vale la pena di essere letto, non essendo nemmeno un libro troppo complesso.”
Ritratto di signora, di Henry James
Il professore ha detto che “non c’è molto da dire, va letto”. Io mi fiderei: è un romanzo di fine ‘800 che racconta di una giovane americana emancipata e anticonformista che viaggia in giro per l’Europa.
Grazie di avermi letto anche oggi. Questo numero è stato un esperimento: per questo critiche e consigli sono ben accette, scrivimi rispondendo direttamente a questa mail! Se lo hai trovato interessante, condividi questo numero cliccando il tasto share qui sotto.
Ci sentiamo domenica prossima,
Daniele
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Grazie, un tema veramente interessante, dove spesso sia filosofi che scienziati prendono varie cantonate. Mi pare un approccio equilibrato quello del prof. Guidetti, davvero bella intervista.