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Eccoci qui. Questa settimana numero strano, che più che essere stato scritto dal sottoscritto, si è auto-imposto da sé. Nella conclusione vi dico una cosa. Poi: se volete supportare il progetto avete tre modi: diffonderlo, Ko-fi e la wishlist. Tutti e tre sono molto apprezzati.
La newsletter di oggi è strutturata così: vi è una premessa, in cui parlo io. E poi una seconda parte, intitolata L’ascolto, in cui è riportata una citazione anonima da un autore che concretizza la premessa e ciò che ci è scritto dentro.
Spero vi piaccia. E buona lettura.
Premessa
Alla fine dei conti chi scrive fa un atto di vanità. Scrivendo pensi che ciò che stai ordinando su foglio sia meritevole di essere letto e comunicato. E sebbene la vanità possa a volte fare bene se priva di eccesso al volteggiare infido delle autostime, mi sono trovato spesso di fronte a una sensazione che quella mia supposta vanità l’ha attaccata con violenza. Minando così, di conseguenza, il mio diritto di scrivere.
E ogni volta quella sensazione ho dovuto combatterla per riacquisirlo, il diritto di scrivere. Dietro a un grande libro, mentre sei solo con il gigante che lo ha scritto, solo con le sensazioni che esso è in grado di farti provare, si nasconde quell’ingombrante umiltà che al posto che spronarti delegittima, ammutolisce. Ed è questa qui la sensazione che dicevo: l’umiltà davanti alla grandezza vera.
Perché quello che stai leggendo in quel momento raggiunge livelli di profondità e bellezza che dovrebbe prima di tutto essere ammirato, poi rispettato e infine fatto leggere a tutti. E allora, prima che tutti l’abbiano letta, prima che tutti quella pagina l’abbiano assimilata, come ti permetti di scrivere? Come ti permetti addirittura di pubblicare?
Perchè, anche se fa un po’ sorridere, per me Autarkeia è un po’ pubblicare. Io clicco un tasto e potenzialmente un migliaio di persone leggerà quello che ho scritto. Ma scrivere per me è un bisogno, un senso. E quindi quella sensazione la devo combattere.
Tuttavia, purtroppo - o, forse, per fortuna - questa volta su di me ha vinto la sensazione. Sarà il momento della mia vita, sarà l’amore per l’autore (che rimarrà anonimo), ma oggi lascio parlare lui, molto meglio di me. Quindi in questo numero parlerà uno dei giganti, non io. Ciononostante, il problema resta, anche se oggi l’ho lasciato vincere.
Ho pubblicato tanto, ho scritto tantissimo, e come ho potuto? Come ho fatto a vincere io le altre volte? Come ho sconfitto quella sensazione?
Perché, comunque, nell’affollarsi delle voci, una piccola parte di te continua a dire: vale la pena, forse ciò che scrivi un valore ce l’ha. E poi: che cosa dovrei fare? Dovrei fare come quello scettico dell’Elide che ai dubbi si inchinava col silenzio? Come quegli uomini di Nietzsche che si permettevano solo di ridere davanti al mondo?
Io ho bisogno di parlare. E a qualcuno piace ascoltarmi. Non si può vivere stando zitti.
E se continuerai a dirti che no, il solo atto di rispetto che puoi fare a quei giganti è non parlare, e dedicarti ad altro, un’altra voce acidula, un po’ cinica, un po’ sarcastica, alzerà i toni:
Ebbene: quali sarebbero le alternative?
E allora riprendi la penna.
Ascolto
La solitudine impietosisce gli altri. A volte lui sente lo sguardo indiscreto della gente posato sulla sua figura come un gesto di una violenza inaudita. Come se gli altri lo pensassero cieco e gli si accostassero per fargli attraversare la strada. Certe premure lo offendono più dell’indifferenza, perché è come se gli ricordassero continuamente che a lui manca qualcosa e che non può essere felice. Si vede con un lato del corpo sanguinante, una cicatrice aperta dalla quale è stata separata l’altra metà. Vorrebbe spiegare che sì, Thomas gli manca e di questo sta soffrendo. Ma che non avverte la propria solitudine come una disperazione. Si sta concentrando su di sé, si sta racchiudendo nelle proprie fantasie e nei propri ricordi. Sta cercando di abbracciare la parte più vera di se stesso recuperandola attraverso il ricordo, la riflessione, il silenzio.
Continua a dormire tantissimo. Di pomeriggio, e coricandosi la sera presto. È come se, steso su quel letto solitario e separato, lui dovesse ricapitolare tutto quanto il suo passato e la sua vita per rinascere. È un letargo dal quale spera di uscire come un uomo nuovo. Ma più pensa di progredire, più si sente sospinto all’indietro.
Per la prima volta nella vita il suo sguardo è catturato esclusivamente dai bambini. Li spia nei parchi, li osserva per ore lungo la strada o nei cortili delle scuole, stretto nella sua giacca di lana, incapace di pensare ad altro. E si sente in pace, dolcemente spossessato di sé. Li guarda attraverso le reti di protezione dei parchi o le recinzioni delle scuole come fosse allo zoo, o in un museo di storia naturale. Osserva come sono vestiti, come parlano, come giocano, come piangono. Li immagina adulti, vede in ognuno di loro i tratti espressivi che avranno da ragazzi e da vecchi. Ricorda altri bambini, altre scolaresche, la sua. E si vede in tutta l’enormità della propria sofferenza di fanciullo. È un sentimento struggente che lo stordisce perché non è più in grado di avvicinarsi a quel bambino grassottello, senza denti, e consolarlo; appoggiargli una mano sulla piccola spalla e sorridergli dicendogli che non deve avere paura.
Allora si stringe sempre di più nella sua giacca, le sue spalle si incurvano e si allontana lentamente. Sente come una profanazione e un sacrilegio il peso enorme di tutta la violenza che quel bambino ha dovuto sopportare, lui, il piccolo, l’indifeso impastato solamente della propria purezza e della propria, ingenua, bontà. E si sente folle perché capisce che solo il dolore estremo può fare impazzire.
Ora lui sta ritornando, lentamente, quel bambino. Si rende conto di non aver nient’altro al di fuori di se stesso. Il lutto per la morte di Thomas, una morte che continua ora dopo ora - quante volte al giorno Thomas per lui sta morendo? - lo sta soverchiando. Tutto in lui è in via di distruzione. O meglio, di eliminazione. Cammina in silenzio per le strade, siede nei pub attorno al Covent Garden e ordina pinte di bitter ale senza rivolgere parola a nessuno. Il suo inglese è infantile. Passa pomeriggi interi alle slot machine elettroniche o nelle sale gioco aggrappato a un videogame. Improvvisamente, mentre è in un museo, mentre sta cenando, avverte l’impulso irrefrenabile di tuffarsi nel rumore tintinnante, galattico, di una sala giochi dove i flipper parlano come robot invitando al gioco e i videogames emettono motivi minimali, come eseguiti da un organo interstellare e le slot riproducono incessantemente il fragore metallico di una cascata di monete. Quando non gioca osserva. Nel giro di pochi giorni è in grado di riconoscere i perdenti abituali, i turisti occasionali, i piccoli boss che prestano qualche sterlina già cambiata in modo che il giocatore non sia costretto ad abbandonare la macchina per recarsi a far moneta e lasciare così una probabile, quanto remota, vincita. Ogni tanto anche lui vince e sente un piacere selvaggio che lo scuote per un istante dall’abulia. E questo piacere non è legato alla quantità della vincita, ma solamente alla riuscita visiva della combinazione vincente. Si sente allora tutt’uno con la macchina. La ama, in un certo senso. Vede se stesso proiettato nella vincita e allora ritenta. E perde.
Ci sono moltissimi orientali, piccole donne cinesi incanaglite sulle leve delle slot. Vecchi che ciccano sigarette e che estraggono dalla tasca le monete una ad una come fossero tesori. Altri poveracci che fanno scongiuri, incrociano le dita, tappano le finestre dietro le quali ruotano i simboli graziosi e crudeli della fortuna: le ciliegie, le campane, le pere, le albicocche, i jolly. Alcuni litigano fra di loro per la precedenza. Ci sono spesso discussioni violente, poi il più debole raccoglie i suoi stracci, una piccola busta di plastica colma di indumenti, e esce bestemmiando. Leo lo ritroverà, ancora più accanito, nella sala-gioco dieci metri più avanti. E questo girovagare di sala in sala, attorno a una piazza o a una strada, solamente per il piacere di sentirsi rifiutati dalla sorte e dagli uomini, gli ricorda la droga.
Ti è piaciuto questo numero? Dietro ci sono io, Daniele. Sono laureato in filosofia teoretica e ora studio Scienze Filosofiche a Bologna. Autarkeia vive dell’apprezzamento della community. Vorresti supportare il progetto e valorizzare le ore di lavoro che stanno dietro a ogni numero? Ci sono due modi per farlo:
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Vi lascio in appendice l’aforisma di Nietzsche che cito nella premessa.
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Buon lavoro e buona settimana,
Daniele
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Appendice
Il viandante e la sua ombra, aforisma 213: Il fanatico della diffidenza e la sua certezza
L'anziano: Volete fare una grande impresa e istruire l'umanità nelle grandi cose? Qual è la tua certezza?
Pirrone: È questa: Intendo mettere in guardia gli uomini da me stesso; intendo confessare apertamente tutti i difetti del mio carattere e rivelare al mondo le mie conclusioni affrettate, le mie contraddizioni e le mie sciocchezze. "Non ascoltatemi", dirò loro, "finché non sarò diventato uguale al più meschino tra voi, anzi, sarò persino inferiore a lui. Lottate contro la verità finché potete, a partire dal vostro disgusto per il suo sostenitore. Io sarò il vostro seduttore e traditore se troverete in me il minimo barlume di rispettabilità e dignità".
Il Vecchio: Prometti troppo; non puoi sopportare questo peso.
Pirrone: Allora dirò agli uomini anche questo, e dirò che sono troppo debole e non posso mantenere la mia promessa. Quanto più maggiore è la mia indegnità, più diffideranno della verità, quando passerà dalle mie labbra.
L'anziano: Intendi insegnare a diffidare della verità?
Pirrone: Sì; la diffidenza come non c'è mai stata sulla terra, la diffidenza verso tutto e tutti. Questa è l'unica strada per la verità. L'occhio destro non deve fidarsi dell'occhio sinistro, e per qualche tempo la luce deve essere chiamata tenebra: questa è la strada che dovete percorrere. Non pensate che vi condurrà ad alberi da frutto e a pascoli tranquilli. Troverete su questa strada piccoli grani duri - queste sono verità. Per anni e anni dovrete ingoiare manciate di bugie, per non morire di fame, pur sapendo che sono bugie. Ma quei grani saranno seminati e piantati, e forse, forse un giorno arriverà il raccolto. Nessuno può promettere quel giorno, a meno che non sia un fanatico.
L'anziano: Amico, amico! Anche le tue parole sono quelle di un fanatico!
Pirrone: Hai ragione! Diffiderò di tutte le parole.
L'anziano: Allora dovrai tacere.
Pirrone: Dirò agli uomini che devo tacere e che devono diffidare del mio silenzio.
L'anziano: Quindi ti ritiri dalla tua impresa?
Pirrone: Al contrario, mi hai mostrato la porta attraverso la quale devo passare.
L'anziano: Non so se ci capiamo ancora del tutto?
Pirrone: Probabilmente no.
L'anziano: Se solo capissi te stesso!
(Pirrone si gira e ride).
L'anziano: Ah, amico! Silenzio e risate: è questa la tua filosofia?
Pirrone: Non sarebbe poi la peggiore.
Avevo bisogno di leggere queste parole e non altre. Ora e non in un altro momento, quindi grazie!