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Sorpresa! Come state?
Sto per partire per l’Inghilterra e volevo scrivervi, mi mancavate. Autarkeia rimarrà, non so ancora per quanto, in pausa. Ci saranno di tanto in tanto dei numeri a sorpresa come questo. Sto ragionando su come proseguire questo progetto che mi ha dato tante soddisfazioni. Per qualsiasi cosa, potete sempre scrivermi rispondendo a questa mail.
Il numero di oggi è dedicato a quelle persone che si impegnano tutti i giorni in silenzio e con dedizione nel proprio lavoro.
“É più lungo il tempo in cui dovrò piacere ai morti, che non ai vivi.”
Sofocle
Vi era un tempo, nemmeno troppo lontano, in cui gli uomini vivevano in piccole comunità. In queste comunità, tutti si conoscevano e ogni faccia incrociata di sfuggita era una faccia già vista, di cui probabilmente ci si ricordava il nome. Si invecchiava insieme, e i percorsi di vita si incrociavano costantemente, intrecciandosi e costruendo una storia condivisa. In questo contesto sociale le opportunità erano poche, le novità ancora meno e la quotidianità era spesso alienante. L’assenza di movimento, sia concreta che astratta, contribuiva anch’essa a creare un senso di sicurezza e di protezione che noi raramente proviamo. Ma non è questo che ci interessa approfondire.
Vivere in una comunità come questa favoriva un approccio all’altro-da-sé che può ancora insegnarci qualcosa. Conoscere la maggior parte delle persone che si incontrano durante la giornata permetteva agli uomini di evitare approcci interpersonali de-umanizzanti e umilianti che pullulano invece nelle nostre società contemporanee, che di quelle comunità e di quei rapporti hanno perso ormai quasi tutto.
Questo perché la densità demografica attuale impedisce lo strutturarsi di situazioni comunitarie come quelle che caratterizzavano i gruppi umani del passato. Vivere in città, o comunque in paesi con decine di migliaia di abitanti, impedisce la creazione di storie collettive condivise che coinvolgano individui non tenuti insieme da legami familiari o di amicizia. Quando andiamo a lezione in facoltà, a lavorare, o a svolgere delle commissioni, compiamo azioni che ci portano a incontrare centinaia di persone che, in larghissima parte, non conosciamo. Centinaia di volti ci sfilano quotidianamente davanti, in autobus, in aula o in coda in automobile, e a malapena li notiamo, figuriamoci riconoscerli.
Il costante vivere in situazioni come queste ci induce a dimenticare constatazioni ovvie, ma che si rivelano essere col senno di poi tutt’altro che banali. Ormai assuefatti dalla densità pressante di incontri sconosciuti, finiamo per ridurre brutalmente ogni volto che ci passa davanti a un semplice volto. Ed è così che piano piano limitiamo ogni persona che casualmente incontriamo a un punto, a quel preciso punto in cui l’abbiamo incrociata. Ma questo processo mentale è erroneo. Per quanto questo meccanismo inconscio sia facilmente comprensibile, ciò non toglie che ogni persona rimarrà sempre e comunque un complesso risultato di una storia personale, a prescindere da quante migliaia di altri volti abbiamo incontrato di sfuggita nelle ore precedenti. Ogni volto rimarrà un ermetico intrecciarsi di emozioni e carattere, di personalità ed esperienze. E questo perché ogni persona è molto di più che un volto su un pullman.
Ora facciamo un passo di lato. Sviluppata la prima faccia dell’argomentazione, passiamo alla seconda.
Fin da bambini veniamo abituati, oltre che a vivere costantemente immersi in volti sconosciuti, a percepire che il mondo sia sempre in attesa del nostro arrivo. Per come sono strutturate le efficienti società occidentali e per come funziona l’economia capitalistica, ogni luogo o contesto in cui è possibile che si crei una domanda di un bene o di un servizio viene occupato dal mercato. Questo comporta che, tendenzialmente, ogni qualvolta sentiamo il bisogno di qualcosa (materiale o non), troveremo vicino a noi qualche attività commerciale che possa soddisfarlo. E in quella attività commerciale persone addette a soddisfare quel nostro specifico bisogno.
Questa situazione genera anch’essa assuefazione. Vivere in una società di questo tipo sin da bambini comporta che cresciamo dando per scontato questa continua offerta di soddisfazione dei nostri, per quanto spesso frivoli, bisogni. E, di conseguenza, che ci siano sempre persone a nostra disposizione, pronte a servirci. Con il passare del tempo anche questa abitudine, similmente a come abbiamo visto prima, sfocia nel far perdere consistenza alle persone che ci lavorano davanti. Esse finiscono per assomigliare sempre di più a strumenti, a macchine preimpostate al raggiungimento di scopi meccanici, e quindi sempre meno simili a persone vere e proprie.
La somma delle due tendenze che abbiamo appena descritto ha le sue conseguenze più impattanti proprio sulla figura del lavoratore. Il concretizzarsi di queste assuefazioni dà il via a un processo di de-umanizzazione delle persone, e in particolare delle persone che lavorano. E questo perché l’essere perennemente a contatto sin da bambini con volti sconosciuti che esaudiscono con gentilezza e accondiscendenza i nostri desideri ci conduce lentamente a dimenticare inconsapevolmente l’umanità di chi abbiamo di fronte. Finiamo per dimenticare che ogni lavoratore, per quanto possa dedicare anima e corpo a quello che fa, non si esaurisce mai totalmente nel suo lavoro: egli sarà sempre qualcosa di più.
É importante svegliarsi da queste abitudini, perché ri-umanizzare chi ti lavora davanti porta a conseguenze concrete. Liberarsi dalle assuefazioni che abbiamo descritto permette di ricordare come ogni lavoratore sia frutto di una storia personale e abbia una sua complessa interiorità. Recuperare questa concezione dei rapporti interpersonali scoppia la propria bolla autoreferenziale e aumenta le proprie capacità empatiche, arricchendo le esperienze di vita, mentre si impara a rispettare quelle degli altri. Spesso un semplice “buon lavoro” è sufficiente a restituire dignità a chi ti lavora davanti, dimostrandogli che sei consapevole del fatto che egli sia, in primo luogo, una persona.
Ogni volta che nella nostra vita quotidiana entriamo in contatto con qualcuno che sta lavorando, dobbiamo ricordarci che quell’individuo, nonostante ci sia spesso apparso diversamente, è una persona e non il lavoro che quell’individuo svolge. Un lavoratore non si esaurisce mai totalmente nel suo lavoro, perché sarà sempre e comunque qualcosa di più. Ed è proprio quel di più che non dobbiamo mai scordarci di rispettare.
La riflessione è conclusa, fatemi sapere! Potete commentare pubblicamente qui sotto o rispondere a questa mail in privato. E ora, i consigli: ho un sacco di cose interessanti.
Il Post ha lanciato qualche mese fa un podcast quotidiano condotto da Francesco Costa. É una piacevole rassegna stampa quotidiana di una ventina di minuti: si chiama Morning.
Sto scrivendo ogni mese su Palin, una rivista culturale che esce mensilmente. É fatta benissimo, datele una chance. Dopo averla scaricata gratuitamente, se volete leggere il pezzo scritto da me, cercate "C’era una volta Talete”, la mia rubrica.
Dieci giorni fa cadeva il 73esimo anniversario del governo nordcoreano. Quale migliore occasione per ostentare per l’ennesima volta un’inquietante dimostrazione di indottrinamento propagandistico? La parata di Kim, sul Times. Le foto sono impressionanti.
Quanto influisce la genetica nel determinare i nostri comportamenti? Un dibattito controverso che ha grosse implicazione politiche e filosofiche. Un gran bel pezzo del New Yorker sul rapporto ambiente-individuo.
Su L’Indiscreto è stato caricato un bellissimo racconto di Vanni Santoni, Tutti i ragni. É gratuito. Mostra cosa significhi scrivere bene nel 2021.
English spelling is ridiculous. Sew and new don’t rhyme. Kernel and colonel do. When you see an ough, you might need to read it out as ‘aw’ (thought), ‘ow’ (drought), ‘uff’ (tough), ‘off’ (cough), ‘oo’ (through), or ‘oh’ (though). The ea vowel is usually pronounced ‘ee’ (weak, please, seal, beam) but can also be ‘eh’ (bread, head, wealth, feather). Those two options cover most of it – except for a handful of cases, where it’s ‘ay’ (break, steak, great). Oh wait, one more… there’s earth. No wait, there’s also heart.
Inizia così un lungo articolo su Aeon scritto dalla linguista Arika Okrent. L’autrice cerca una spiegazione del perché le parole in inglese si pronuncino in modo così diverso dal modo con cui le si scrive. La risposta di Okrent, che è ovviamente molto complessa e articolata, è per certi versi sorprendente.
Ti è piaciuto questo numero? Dietro ci sono io, Daniele. Studio filosofia a Bologna e gestisco interamente da solo il progetto. Autarkeia vive dell’apprezzamento della community. Vorresti supportare il progetto e valorizzare le decine di ore settimanali che stanno dietro a ogni numero? Ci sono due modi per farlo:
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Tutti i racconti, di Franz Kafka
Kafka è complesso. Richiede concentrazione e fatica, tempo e sforzo. Spesso, dopo aver finito di leggere una narrazione di Kafka, si rimane per qualche minuto immobili fissando la pagina, senza aver capito quale fosse il punto di quella storia assurda. Questo ti costringe a riprendere quel racconto da capo, e a riviverlo nuovamente. E la magia di Kafka sta proprio nel fatto che ogni volta che riprendi in mano un racconto ci scopri qualcosa di diverso da quello che avevi trovato la prima volta.
Umani e animali, di Giulia Guazzaloca
Giulia Guazzaloca insegna Storia Contemporanea a Bologna. Questo libro ripercorre la storia del rapporto tra umani e animali, e lo fa in maniera piacevole e rigorosa. Oltre al resoconto storico che Guazzaloca fa, ho trovato molto interessanti le considerazioni di matrice più teorica. Consigliato.
E il numero si conclude qui. Spero abbiate passato una bella estate. Vi devo delle scuse: il podcast alla fine non è mai uscito. La verità è che… non me la sono sentita. La scrittura è l’unico modo in cui riesco a espormi con leggerezza, e non ho ancora il coraggio di produrre contenuti di forme differenti. Vedremo in futuro.
Vi mando un abbraccio e ci sentiamo presto, promesso.
Daniele
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