Autarkeia è una newsletter di riflessioni che esce due volte al mese di domenica mattina.
Puoi leggere qui i numeri precedenti e qui il manifesto del progetto, questa è la nostra pagina Instagram.
Eccoci qui e bentornati! Oggi inizia la terza stagione di Autarkeia, con alcuni cambiamenti. Da quest’anno nella newsletter vera e propria troverete esclusivamente la riflessione. I consigli di visione e di lettura passeranno invece sulla pagina Instagram di Autarkeia, che vi consiglio di seguire. Libri, articoli, paper e video saranno consigliati direttamente sulla pagina social, e questo mi permetterà di alleggerire la mail della domenica mattina (che so, talvolta, essere stata un po’ densa). Se la cosa non vi piace fatemelo sapere!
Vi ricordo poi che tutti i numeri precedenti sono visionabili a questo link, che i modi per supportare il progetto sono due: Ko-Fi e la wishlist di letture! Questa terza stagione sicuramente proseguirà fino alla fine del 2022, poi vedremo. Spero di essere costante e mi impegnerò il più possibile. Grazie per chi mi ha scritto durante questi mesi di inattività, per tutto il supporto e le belle parole.
La riflessione di oggi ruota attorno al concetto di azione. Partiremo con alcune considerazioni generali, per poi innestare su queste una proposta di visione del nostro contesto sociale ed economico. Buona lettura.
Cominciamo.
Vi sono momenti della vita in cui ogni azione ci appare come insensata, come non meritevole di impegno, di sforzo e di fatica. Sono quei momenti in cui si rimane bloccati in una resa che (anche se ci diciamo diversamente) è per fortuna momentanea, e si decide che forse, per un po’, è meglio lasciare stare la vita con tutto il suo aggrovigliamento fisico e mentale. Questi momenti scattano a volte a seguito di delusioni, altre volte da consapevolezze acquisite di recente, altre volte sono solo scherzi che il nostro umore decide di farci una mattina. In quei momenti, l’immobilismo si rivela la risposta più ovvia e diventa un nascondiglio, un piccolo rifugio accogliente in cui rintanarsi per un po’. E allora ci riponiamo con un velo di apatia in quell’angolo: lasciando che per un po’ la vita scorra senza farci trascinare con lei.
Questo meccanismo, che io trovo profondamente umano, non ha in sé nessuna grave conseguenza. Ma apre le porte a un rischio: che quell’immobilismo, quell’assenza di azioni proattive, si allunghi più del previsto. Che essa da rifugio diventi abitudine, e poi, in un circolo vizioso, gabbia. E allora la pausa che ci eravamo presi si trasforma lentamente in insoddisfazione generale verso se stessi, in ansia di stare facendosi scappare la vita dalle mani senza fare nulla, di stare perdendo tempo senza aggredirlo. Le giornate ci scappano dalle mani, e, da persone che si erano arrese per qualche tempo, iniziamo a sentirci come incapaci di vivere diversamente, trascinati lentamente verso un’atmosfera di tristezza. La resa momentanea si trasforma in un triste velo di rassegnazione generale.
Questa dinamica interiore è subdola, ed è uno dei tanti modi con cui cerchiamo nelle nostre quotidianità di autosabotarci. Essere degli esseri umani è tutt’altro che facile. La coscienza è un’incredibile opportunità ma anche un peso non indifferente. E non sempre è facile vivere nella propria testa. Le percezioni che abbiamo del futuro ingannano, spaventano e incrementano paure pre-esistenti a volte in maniere stupefacenti. Tuttavia, la lotta quotidiana con i tentativi di auto-sabotaggio è probabilmente uno degli aspetti più importanti della propria crescita personale. Aggiungo poi che, e questa è solo una mera opinione, le insicurezze spesso (non sempre, ovviamente) sono sintomo di intelligenza. E riuscire a superarle sintomo, invece, di grande forza di volontà.
Il circolo vizioso che ho descritto nel primo paragrafo mi appare come molto comune, soprattutto tra le persone con meno di trent’anni. Il perché è presto detto: quando si è ancora giovani, le vite possibili che ci si può ancora costruire sono molteplici (si potrebbe dire infinite). E allora l’insieme di “tutte le cose che potrei fare” è immenso. E allora succede che i pensieri diventano i seguenti: “qualsiasi cosa io faccia non sarà abbastanza”, “qualsiasi cosa io faccia sarà una scelta che mi impedirà di scegliere altro” (e quindi, necessariamente, una perdita).
A mente fredda, è facile vedere la fallacia nascosta dietro a questi pensieri ricorrenti. Se non faccio nulla per paure legate al fare, renderò certo il non accadere di eventi che potrei, invece, far accadere. Per questo è fondamentale fare le cose. Per quella che è la mia esperienza e per le riflessioni a essa legate, un modo efficace attraverso cui riuscire a uscire dall’immobilismo autoimposto è proprio l’azione. E questo soprattutto perché, nel momento in cui inizierò a fare, lentamente cambierà l’immagine che ho di me stesso. Ma non solo: nel momento in cui sarà il fare a diventare abitudine, a cambiare sarà anche qualcosa in più. Ma prima: che cosa intendo per “iniziare a fare le cose”?
Vi sono momenti in cui è necessario sospendere il giudizio. Nel momento in cui mi trovo in situazioni di immobilismo a causa di ansie e paure, bisogna tentare di mettere da parte quella ricerca ossessiva di un senso futuro delle proprie azioni, e agire, agire subito e senza pensare. Questo perché, sebbene sia possibile che quelle azioni non porteranno concretamente a nulla (e quindi portando conferma alle nostre ansie), gli effetti benefici che l’agire avrà su di noi saranno molti di più rispetto ai rischi possibili. L’immagine che avremo di noi cambierà rapidamente, e piano piano smetteremo di vederci come persone che subiscono la vita, ma come persone che fanno. Provare a creare qualcosa di proprio, uscire dalla propria zona di comfort, decidere di ricominciare a studiare, cambiare lavoro per muoverci in una direzione che ci sembra più adatta a noi: questi sono solo alcuni esempi di che cosa potremmo intendere con “fare le cose”.
Questo atteggiamo attivo all’interno della propria quotidianità, se mantenuto con costanza, lentamente trasformerà anche il modo con cui guardiamo alle cose degli altri (o, perlomeno, così è stato per me). Per esempio: dopo aver tentato di creare qualcosa di proprio (che ne so, una newsletter culturale), gli occhi con cui si guarda qualsiasi tentativo altrui di creazione personale cambiano completamente. Prima di giudicare i prodotti altrui, si empatizza con l’azione di quella persona. Con la decisione di fare qualcosa in più, di esporsi agli occhi degli altri con qualcosa che ti renderà passibile di un giudizio. E allora il primo istinto smetterà di essere una valutazione supponente dei prodotti degli altri, ma un sincero apprezzamento di quei tentativi di produzione creativa.
Più in generale credo che questo atteggiamento nei confronti della cose, oltre ad aiutare a fuoriuscire da momenti di depressione e sconforto, permetta di apprezzare maggiormente la complessità delle cose che ci circondano. In generale, nella nostra quotidianità, cercare di vedere le cose non esclusivamente come “colui o colei che consuma”, ma anche con gli occhi di chi quelle cose le ha create (siano prodotti giornalistici, di ricerca o di consumo) permette di intravedere con maggiore chiarezza i complessi processi (interiori ed esteriori) che hanno portato quella cosa lì ad essere ora qua davanti a me, fruibile del mio consumo.
Inoltre, in questo modo anche le visioni antisistema del mondo perdono parte del loro significato. Per prima cosa perchè non esiste alcuna entità metafisica che possiamo far corrispondere a un sistema (o se vogliamo farla esistere dovremmo operare banalizzazioni e semplificazioni tali da trasmutarla e non renderla più minimamente aderente alla realtà), e in secondo luogo perché quel “sistema” smetteremo di vederlo come monoliticamente contrapposto a noi. L’operazione concettuale che l’antisistemista fa (permettetemi il neologismo) è incompatibile con una visione attiva della quotidianità per come l’ho descritta poco fa. Faccio un esempio: le tesi antiscientifiche e complottiste riflettono su ricerche e risultati della ricerca senza minimamente considerare la complessità del lavoro che si cela dietro a una dozzina di pagine di un paper. La concezione che ha l’antisistemista della scienza è banalizzante e talmente semplificata da renderla totalmente diversa da ciò che la scienza è in realtà. E il modo migliore per rompere questa idea sbagliata è mettersi nei panni di chi la scienza la fa. E il primo passo per comprendere questo è proprio fare qualcosa in prima persona.
E allora il fare le cose si rivela fondamentale sotto un duplice punto di vista: da un lato per la propria salute interiore e autostima, dall’altro per sviluppare una visione più corretta di come realmente sono strutturati i sistemi complessi del mondo.
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Abbraccio,
Daniele
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