Autarkeia è una newsletter settimanale di riflessioni e consigli che esce ogni domenica mattina, per iscriverti clicca qui. Puoi leggere qui i numeri precedenti e qui il manifesto del progetto, mentre questi sono i miei profili Instagram, Linkedin e Twitter.
Eccoci. L’ultimo numero sull’edonismo nichilista è stato apprezzato da molte persone: grazie!
Oggi ospitiamo su Autarkeia il prof. Riccardo Leoncini dell’Università di Bologna: mi piace l’idea di ospitare persone che offrano prospettive diverse dalle mie, anche per rendere questo progetto più inclusivo e plurale. Prima di cominciare, volevo ringraziarvi per il supporto che mi state dando su Ko-fi. Appena raggiungeremo il nuovo target caricherò su Medium il racconto “Il colore del rumore” (a proposito, il podcast arriverà presto, promesso).
Autarkeia è una newsletter di filosofia, attualità e consigli che esce ogni domenica mattina: se stai leggendo questo numero senza essere iscritto, clicca il bottone qui sotto.
E ora, cominciamo. Le mie parole sono in grassetto e quelle del professore in tondo.
Il 28 Dicembre 2019 sul New York Times usciva un articolo intitolato “This has been the best year ever”. L’autore era Nicholas Kristof, uno dei più importanti giornalisti al mondo, vincitore di due premi Pulitzer e famoso per la sua attenzione ai diritti umani e alle ingiustizie sociali. Il sottotitolo dell’articolo era: “For humanity over all, life just keeps getting better”.
I dati citati da Kristof sono abbastanza sorprendenti: innanzitutto, storicamente almeno la metà di tutti gli esseri umani è morta durante l’infanzia. Nel 1950, il 27% moriva entro i 15 anni. Oggi a morire durante l’infanzia è solo il 4% della popolazione mondiale, e le persone che sopravvivono in condizioni di estrema povertà sono diminuite del 75% in meno di 40 anni. Inoltre, gli adulti capaci di leggere e scrivere erano il 10% della popolazione mondiale nel 1820. Oggi sono quasi il 90%.
Il mondo è certamente pieno di problemi che non vanno sminuiti. Tuttavia, fa un certo effetto osservare questi dati. Come mai, dopo averli letti, non riusciamo comunque a ritenerci soddisfatti della direzione in cui stiamo andando? Cosa non ci permette di apprezzare il sempre maggiore benessere dell’umanità?
Questi dati sono veri, e non possono essere contestati in quanto tali. Molti economisti hanno tentato, come Kristof, di evidenziare questi trend. Tuttavia, bisogna sottolineare che si tratta di dati aggregati: questo significa che, per esempio, la Cina ha su di essi una grossa influenza. Spesso prendere dati aggregati può ingannare, soprattutto se parliamo di dati così diversificati a livello mondiale. Se andiamo a vedere la tendenza di questi dati nel continente africano, le cose cambiano. Il problema sta nel fatto che, quando vai a disaggregarli, ti rendi conto che essi cambiano a seconda dei paesi in cui li vai ad esaminare.
Negli ultimi anni si sono sviluppati indici che misurano il grado di sviluppo di una nazione in maniera differente e, secondo me, migliore. Solitamente misuriamo lo sviluppo mediante il PIL pro capite, quindi attraverso un indicatore di crescita economico-materiale, ma non di sviluppo in senso più ampio. La maggior parte degli indicatori che siamo soliti utilizzare sono di questo tipo. Essi hanno un loro senso, soprattutto se collocati in un quadro storico. Il modello del Prodotto Interno Lordo è stato sviluppato negli anni ‘30, in anni di guerre e di crisi economiche devastanti: un contesto in cui valutare il benessere materiale aveva un senso. Vi erano persone che non avevano da mangiare: il benessere passava davvero per la maggiore produzione. Ma oggi nel 2021 dire che noi stiamo meglio dei cinesi perché abbiamo 5 televisori per famiglia e loro 3 fa un po’ ridere.
Tuttavia, mi viene da dire che determinare quantitativamente il benessere materiale sia più semplice: forse il problema sta anche in un limite metodologico.
Certamente. Ma dobbiamo anche chiederci se, con il passare del tempo, i nostri indicatori continuino ad avere un senso. Un economista americano, William Easterly, qualche anno fa fece uno studio su questi temi: per un lungo periodo di tempo chiese alle persone di definire il loro grado di felicità. Poi mise questi dati in correlazione con il PIL degli Stati Uniti, cioè il paese dove aveva fatto lo studio. Ciò che emerse fu che alla crescita costante del PIL non corrispondeva una crescita costante della felicità, che rimaneva invece praticamente costante: provando che tra i due fattori non vi è correlazione.
Perché questo? Si possono provare a dare più spiegazioni. Per prima cosa, possiamo dire che tipicamente questo tipo di benessere ha un’esperienza tendenzialmente comparativa. Se sono in casa da solo con due maglioni non sono felice, ma se scopro di avere un maglione in più del mio vicino sì. Altro esempio: anche se il mio reddito è relativamente alto, se il mio vicino lo ha estremamente più alto del mio, io non sto bene. Un’altra spiegazione è che tendiamo ad abituarci. Quando ricevi il primo smartphone salti dalla gioia, mentre quando ti viene regalato dalla zia il quindicesimo, questo non accade più.
Ciò che possiamo constatare è che il benessere immateriale si rivela essere più connesso ad elementi appartenenti all’ambito psicologico e sociologico, rispetto che a fattori economico-produttivi.
Bisogna però anche considerare che vi è un limite minimo di benessere materiale che si rivela essere condizione necessaria allo stare bene. Se si scende sotto a quel minimo, l’aspetto materiale non può essere ignorato. Allora, ritornando a Kristof, viene da dire positivamente che le persone al di sopra di quel minimo sono aumentate di molto.
Sì, ma anche in questo caso conviene disaggregare. É vero che la povertà è diminuita, ma, come ho accennato prima, l’Asia ha grandissima influenza su questi dati, soprattutto grazie ai suoi due giganti, l’India e la Cina. Due stati in costante crescita che assieme costituiscono quasi la metà della popolazione mondiale spostano di moltissimo. Prendiamo l’Africa, invece, ad esempio.
Il continente africano è, purtroppo, un continente abbandonato a se stesso. Se un tempo il più grosso investitore estero in Africa era la Banca Mondiale, oggi è la Cina che sta costruendo porti, ferrovie e strade. I cinesi si presentano agli stati africani dicendo di essere dei loro pari, un paese in via di sviluppo; mentre l’europeo o l’americano arrivano in Africa dicendo “Caro africano, dato che non hai capito niente e non sei neanche tanto intelligente te lo spiego io come si fa”, perché noi facciamo così: per notarlo basta guardare le pubblicità su beneficenza et similia che passano in televisione. I cinesi si presentano come un paese povero, un paese come il loro. E così si vendono, mentre acquisiscono materie prime e influenza geopolitica. Ovviamente la percezione occidentale di questo fenomeno è diversa da quella cinese, e cioè l’idea che “la Cina si sta comprando l’Africa”.
Il continente africano si rivela allora essere ciò che mette in difficoltà i dati di Kristof. Cosa possiamo dire del resto del mondo?
Sul resto del mondo si deve parlare di divaricazione del reddito. Per me è fondamentale ricordarsi di cosa accadde negli anni ‘80. Quando eravamo giovani noi, volevamo fare la rivoluzione a sinistra. Alcuni l’hanno presa davvero in senso letterale e hanno cominciato a sparare: uno dei miei professori è stato ucciso dalle Brigate Rosse. Tuttavia, alla fine la rivoluzione è stata fatta a destra. Negli anni ‘80 furono eletti Ronald Reagan, Margaret Thatcher e Helmut Kohl e tutto il mondo cambiò direzione, anche grazie a un sotto-strato culturale che nel mondo intellettuale supportò quella visione del mondo.
Iniziò una stagione di privatizzazioni, liberalizzazioni e deregolamentazioni continue. Ed è grazie a queste scelte politico-economiche che il reddito ha iniziato a divaricarsi. L’evento simbolico che ha segnato questa inversione di marcia rispetto agli anni del dopoguerra fu il violento scontro tra i minatori inglesi e Margaret Thatcher. Ai tempi i sindacati dei minatori inglesi avevano fortissima influenza e potere contrattuale, e questo permetteva loro di dettare e imporre le loro condizioni. Quella vittoria della Thatcher fu la svolta che dimostrò al mondo che si potevano sconfiggere i sindacati e evitare di parlare di diritti sociali, discorso molto attuale tra l’altro se si guardano le condizioni lavorative dei riders.
Quegli anni furono determinanti. Vi fu la crisi petrolifera che fece triplicare il prezzo del petrolio, la rivoluzione khomeinista in Iran, la crisi economica e il ribaltamento politico descritto sopra. Si smise di attuare politiche, diciamo, keynesiane che avevano occupato la scena sino a quel momento. Le politiche monetariste divennero dominanti: tutti i paesi sviluppati alzarono i tassi di interesse e le aziende cominciarono a saltare come pop-corn. Tuttavia, la svolta non fu solo economico-politica. Venne ricostruita una visione del mondo su tutti i livelli: dallo stare nella società al modo di vivere la ricchezza.
E allora ritorniamo così al problema della divaricazione del reddito. Se un tempo un manager prendeva 30 e una segretaria prendeva 1, adesso ho un manager che prende 100 e la segretaria che prende sempre 1.
No, è ancora peggio. C’è un lavoro di alcuni psicologi in cui si è chiesto a un campione di americani di stimare quanto secondo loro fosse il rapporto tra il reddito di un dirigente e quello di un suo operaio. La media delle risposte fu di un rapporto 35 a 1. Veniva poi chiesto agli intervistati: è giusto questo numero? E se non lo è, quanto dovrebbe essere il rapporto? La risposta, in media, che venne data fu che un rapporto giusto sarebbe stato di 7 volte più grande. In realtà il rapporto tra i redditi era più di 350 a 1.
Il problema è che molto spesso noi non sappiamo queste cose. La società non esplode di fronte a questo genere di disuguaglianze perché noi non sappiamo quanto guadagnino quelli che guadagnano. Noi prendiamo il nostro stipendio e fine. Al massimo sappiamo per curiosità il reddito dei 50 uomini più ricchi del mondo: ma amen se qualcuno guadagna un fantastiliardo. Il punto è un altro: il vuoto che sta nel mezzo.
Questo problema delle disuguaglianze che ha appena descritto, lei lo interpreta come un fallimento del mercato che può essere contrastato da un intervento statale, o come un problema sistemico, strutturale?
No, non è un fallimento del mercato secondo me, è il sistema che stiamo costruendo a funzionare così. A tutti i livelli. Ma qua ritorniamo nuovamente a quello che secondo me è il punto: la rivoluzione di destra degli anni ‘80. Uno dei suoi elementi più rilevanti e dannosi è l’individualismo metodologico, cioè l’idea che ogni risultato e azione dipendano esclusivamente dall’individuo e, in soldoni, che si debba pensare solo agli affari propri. Devi fare conto solo su te stesso, devi farti strada solo con le tue forze, devi fare l’imprenditore di te stesso. Esso genera molti mostri, tra cui la mitologia della superstar. La nostra impostazione culturale si basa sul fatto che più grande è l’io, più luminosa è la stella.
La conseguenza più triste di questo modo di vedere il mondo è che non siamo più in grado di ragionare come popolazione. Lo vediamo anche oggi, con il coronavirus. C’è gente che non si vuole vaccinare, perchè conta solo il singolo. Il vaccino non serve a me in quanto individuo, ma alla popolazione in generale. Ci si deve vaccinare per gli altri, anche perché difendendo gli altri, difendi te stesso. Ma finché vivremo in un mondo di soli individui, in cui se non si dà l’io, non si dà niente, non possiamo fare passi avanti su questo.
L’individualismo metodologico è in fin dei conti una riduzione dell’individuo a atomo indivisibile le cui relazioni con il contesto vengono, se non cancellate, sicuramente considerate come non rilevanti.
Esattamente. Alcuni economisti dell’800, penso a Walras, miravano a costruire una meccanica sociale per cui si doveva fare in economia lo stesso che si voleva fare in fisica: considerando gli individui come atomi, si sarebbero potute prevedere le interazioni sociali e le transazioni economiche future: un delirio.
Questa idea sembra essere viva ancora oggi. Se pensiamo ai modelli che oggi si vogliono costruire attorno all’intelligenza artificiale basata su Big Data e machine learning, alla “Fisica Sociale” di Pentland, e quindi all’idea che l’individuo nel suo agire sociale sia prevedibile attraverso l’elaborazione algoritmica di giganteschi box di dati aggregati, sembra proprio che si voglia ripercorrere questo sentiero. Queste teorizzazioni assumono una concezione antropologica dell’individuo come atomo i cui comportamenti non sono liberi in quanto statisticamente prevedibili.
Fa molto pensare che queste idee siano presenti nella fantascienza di Isaac Asimov: il Ciclo della Fondazione ha tra le sue idee fondamentali la psico-storiografia. Però un conto è fare fantascienza, un conto è provare a teorizzare.
Esatto. A me interessa molto questo discorso anche per le sue implicazioni filosofiche: se si dovesse riuscire a costruire la “meccanica sociale”, a quel punto il libero arbitrio verrebbe messo in crisi. Se io ho algoritmi data-driven che forniscono previsioni altamente affidabili di ciò che farò, le mie scelte sono davvero libere? Penso, per esempio, al targeted-advertising, la pubblicità mirata, che sembra andare proprio in questa direzione: essa non fa altro che tentare di prevedere con sempre maggiore precisione le tue intenzioni di acquisto, e quindi, le tue azioni.
Per concludere, vorrei ritornare al punto iniziale. Se accettiamo l’individualismo metodologico come un approccio dannoso alla società, quali sono le azioni politiche e sociali che possono essere messe in atto per migliorare le cose?
La mia idea è che le nostre categorie di pensiero politico si siano spostate tutte verso destra. Questo causa un vuoto a sinistra, che forse oggi sta iniziando a essere riempito, come possiamo vedere negli Stati Uniti (si pensi alla crescente popolarità di figure come Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez) anche se ancora in modo non coordinato e spesso disallineato.
Come singoli dobbiamo smettere di accontentarci di lottare per dei piccoli cambiamenti al margine. Dobbiamo combattere per un cambiamento strutturale, sia concettuale che pratico. E per fare questo serve coraggio e non si può essere soli.
La nostra conversazione è finita: fatemi sapere cosa ne pensate. Come facciamo ogni volta che abbiamo un ospite, i libri sono consigliati dal professore.
Ti è piaciuto questo numero? Dietro ci sono io, Daniele. Studio filosofia a Bologna e gestisco interamente da solo il progetto. Autarkeia vive dell’apprezzamento della community. Vorresti supportare il progetto e valorizzare le decine di ore settimanali che stanno dietro a ogni numero? Ci sono due modi per farlo:
Puoi regalarmi un libro che userò per produrre nuovi contenuti: sceglilo cliccando qui sotto!
“Per una persona come me che viene da una città di mare, Moby Dick è la metafora della vita scritta nella maniera migliore che si possa immaginare. Leggere Moby Dick vuol dire capire qualcosa di più della vita: cosa significhi avere un ossessione, desiderare profondamente qualcosa, incontrare il diverso, il senso dell’amicizia”.
Cromorama, di Riccardo Falcinelli
“É un bel saggio sui colori da cui ho imparato moltissime cose: a partire dal fatto che, in un certo senso, i colori non esistono”.
E anche questa settimana abbiamo finito. Ci avviamo verso la fine della prima stagione di Autarkeia: fra poco vi spiegherò cosa questo significhi. Se hai apprezzato il numero di oggi, condividilo!
Buon lavoro e ci risentiamo domenica,
Daniele
Autarkeia è una newsletter settimanale di riflessioni e consigli che esce ogni domenica mattina, per iscriverti clicca qui. Il progetto è totalmente gratuito, quindi vive del supporto della community: aiutami a fare conoscere Autarkeia. Se apprezzi questo appuntamento settimanale, condividilo, consiglialo, parlane con amici e parenti.
Hai bisogno di contattarmi? Rispondi direttamente a questa mail.