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Chi non ha voglia di parlare di morte la domenica mattina?
Non sono proprio un talento del marketing, lo so. Non tratto argomenti molto commerciali. Tuttavia, questa newsletter nasce con l’idea di essere editorialmente libera: ho voglia di parlare di qualcosa, ne parlo. Se così non fosse non avrei cercato di crearmi un posto mio, ma mi sarei inserito in qualcosa che esiste già. Quindi ora vi beccate una bella riflessione sulla morte, tacchete.
Come forse avrete notato, ho deciso di ascoltare il consiglio che mi avete dato in molti: la parte di riflessione e quella di attualità sono diventate una parte unica. Mi sono reso conto che il cambio d’argomento a metà del numero spezzava il ritmo della newsletter. Grazie di tutti i consigli: come potete notare, ogni feedback è prezioso per migliorare Autarkeia. Come sempre, se apprezzi tutto questo, clicca il tasto qui sotto e condividi!
“I mortali vivono di mutui scambi e come corridori si passano la fiaccola della vita.”
Lucrezio
Un mio professore delle superiori diceva sempre che non tutti i pensieri che facciamo hanno lo stesso peso. Nel mondo in cui viviamo, riceviamo talmente tanti stimoli che non abbiamo nemmeno il tempo di avventurarci in riflessioni così profonde da necessitare inevitabilmente molta più fatica rispetto a chiederci cosa mangeremo oggi a pranzo. Ma queste riflessioni vanno affrontate, prima o poi vanno affrontate. Meno ci si pensa, più saranno distruttive quando si abbatteranno su di noi, quando non saranno più rimandabili. Il numero di oggi è un passo in questa direzione. Il senso della vita, il ruolo della morte, la scomparsa di persone care: tutti temi che hanno stravolto la mia esistenza come un calzino. Sono delicati, dolorosi, difficili, antichi quanto l’uomo. Oggi vorrei provare a darvi il mio punto di vista: non per consegnarvi una verità, tutto il contrario. Per stimolare la vostra idea, per provare a volgere la vostra mente in quella direzione, per costringere (in senso positivo) a pensare per qualche minuto a quei temi da cui scappiamo costantemente per il loro essere così pesanti, oscuri, cupi. Iniziamo.
Di morte parliamo poco, troppo poco, con gli altri e con noi stessi. Di solito entra nelle nostre vite senza bussare, all’improvviso. Tutti si ricordano la prima volta che l’hanno conosciuta: un parente, un amico, una persona cara. Quando si perde qualcuno, l’assenza causa un vuoto che non si riempirà più. Sono dolori difficilmente descrivibili. Sant’Agostino (il celebre filosofo del IV secolo) 1500 anni fa descriveva così il suo stato d’animo dopo aver perso un caro amico:
La tristezza calò buia sul mio cuore; e dovunque guardavo era la morte.
Evitiamo il pensiero, lo scacciamo dalla mente, e poi all’improvviso la morte entra nella nostra vita e appare in ogni angolo: come dice Agostino, è dovunque. Allora diventa inevitabile iniziare a pensare anche al proprio rapporto con quel destino. Non parlerò della perdita di qualcuno che ci stava vicino. Non penso di averne le capacità, sono esperienze troppo complesse e difficili. Vorrei parlare invece del rapporto tra se stessi e la propria morte. In un’umanità che ha sempre meno fede in un’esistenza ultraterrena, una domanda precisa prima o poi si presenta nei pensieri di ognuno:
“Ma se tutto finisce in quel modo qualsiasi cosa io faccia, che senso ha vivere?
Proviamo a ragionare intorno a questo quesito. La prima cosa che mi viene da constatare, e che sfocia nella domanda scritta sopra, è questa: tutti noi nasciamo per morire (oggi sono più simpatico del solito). Questo è un aspetto della nostra natura. Tuttavia, vi è un’idea estremamente consolatoria celata in questa affermazione. Facciamocela spiegare da Montaigne:
Se la compagnia può consolarvi, tutti non fanno forse la stessa strada che fate voi?
Facciamo tutti la stessa strada. E questo perché la morte è una componente strutturale della vita. Ogni cosa viva deve morire, senza eccezioni. E non ci si può ribellare: siamo tutti sullo stesso sentiero, in piacevole compagnia. Il destino comune della morte è per questo un’incredibile simbolo di uguaglianza e in esso vi è una forma di giustizia: non ci sono privilegiati. Ricco, povero, felice, infelice, magro e grasso sono (siamo) tutti sulla stessa barca. Constatato questo viene da chiedersi: allora perché la morte è un evento così al di fuori dalla quotidianità? Perché rifuggiamo il pensiero e lo evitiamo fino a quando non è lei a presentarsi e a travolgerci? Scrive Montaigne a riguardo:
“Togliamo alla morte il suo aspetto di fatto straordinario, pratichiamolo, rendiamolo consueto. […] E il suo sopraggiungere non ci dirà nulla di nuovo.”
L’idea di Montaigne è che si debba togliere alla morte il suo aspetto sbalorditivo, rendendola consueta, un pensiero abituale. Perché questo è ciò che siamo. Nel momento in cui accetto il mio essere un uomo, io sto accettando me stesso. E accettare me stesso significa accettare di vivere sapendo di dovere morire.
Pensare a queste cose mi ha sempre abbattuto. Perdevo la speranza, mi volgevo altrove per distrarmi, volevo fuggire. Mi sentivo piccolo, inutile, in balia del mondo: irrilevante. Fino a quando ho iniziato l’università: e per fortuna ho deciso di studiare filosofia. E studiare filosofia mi ha portato a cambiare idea. Ho capito che meditare sulla propria morte non deve essere una fonte di angoscia, ma tutt’altro. Meditare sulla propria morte deve condurre a una maggiore libertà: accettare la propria condizione di essere umano significa diventare più liberi. Le cose stanno così e valgono per tutti. Tutto si muove con lo stesso ritmo, ed è così da quando i primi batteri sono apparsi su questo piccolo pianeta disperso in una tra miliardi di altre galassie. Se impariamo ad accettare di dovere morire senza sperare in cose che vanno oltre ciò che siamo, evitando di angosciarci per un destino che non è negoziabile, questa realtà in cui siamo cambierà le sue sfumature.
“Imparare a morire significa disimparare a servire.”
Ecco il significato di imparare a morire: accettare se stessi e la propria condizione, in modo che la morte non possa coglierci impreparati, in modo da essere più liberi di godere dell’al-di-qua. E questo perché il valore della vita non sta né nel vivere il più a lungo possibile né nell’irrazionale speranza di vivere per sempre in questo corpo. Il valore della vita sta nell’uso che facciamo della nostra esistenza. E nel costruire la nostra esistenza dobbiamo essere totalmente liberi, senza angoscia di un futuro ineluttabile che, per quante precauzioni possiamo avere, prima o poi ci raggiungerà. E questa non è una difficoltà, ma è la condizione in cui occorre saper vivere.
Riflettendo su queste cose, sono giunto a chiedermi: ma siamo poi così sicuri che sia la morte a farci dire che “la vita non ha un senso?”. Proviamo a togliere ipoteticamente la morte di mezzo per un secondo: se fossimo immortali, a quel punto la vita acquisirebbe quel senso che cerchiamo? Una vita senza la morte avrebbe più senso di quella attuale?
E mi sono reso conto che sotto questo aspetto il progresso tecnico-scientifico e la religione sono sullo stesso livello. Se la scienza o Dio ci rendessero immortali, a quel punto la vita aumenterebbe di senso? Non credo. Una vita che durasse ben oltre le attuali attese di vita, avrebbe più senso della nostra vita presente? E sono arrivato così a pensare che non sia la morte a togliere il senso alla vita, ma che siamo noi a cercare il senso della vita nel posto sbagliato.
Ci capita spesso di guardare alla nostra esistenza come se fosse un bene o un male in sé, come se la vita fosse intrinsecamente buona o cattiva. Ma la vita non ha alcuna di queste caratteristiche. Siamo noi uomini ad affibbiargliele. La vita è se stessa, il mondo è se stesso, l’universo è se stesso: la natura non ha gli attributi umani che noi cerchiamo di darle. E lo stesso vale per il senso. Quando ci poniamo questo tipo di quesiti, lo facciamo come se ci aspettassimo di scoprire che la vita abbia un suo senso, indipendente da noi. Ma questa è una nostra distorsione della realtà. Perché la vita in sé non è né un bene né un male: non sono le cose attorno a noi a darci un senso, siamo noi a dare un senso alle cose. Nel mondo tutto è come è, e nessun fatto del mondo può dare un senso e un valore assoluto al mondo stesso.
L’accettazione del nostro futuro di morte non deve condurci alla percezione di un’angosciosa condanna ma ad una forma di liberazione. La consapevolezza che la vita in sé non abbia alcun senso non deve portarci ad un’apatica accettazione del destino ma a una presa di posizione, ad agire. Perché in questo modo vivere diventa una responsabilità, non una condanna. Siamo noi a tracciare il nostro percorso: agendo, facendo scelte, interessandoci al prossimo, aiutando gli altri. Non è ciò che abbiamo attorno a darci un senso, ma è l’uso che facciamo di questa incredibile opportunità a dare un senso alla nostra esistenza.
Attraverso questi ragionamenti, sono arrivato a pensare che l’affermazione “la vita non ha senso” sia una frase sterile. E questo perché siamo noi a doverglielo dare, agendo liberi, accettando noi stessi e la nostra limitata condizione di essere umani. Perché solo così costruiremo la nostra felicità in questo mondo: e a quel punto la vita ce lo avrà eccome un senso, perché saremo stati noi ad averglielo dato.
Riflessione terminata, ho cercato di essere incisivo, ma delicato: spero di esserci riuscito. Io faccio del mio meglio, lavoro molte ore per consegnarvi il prodotto migliore possibile, ma parlare di queste cose non è facile, siate indulgenti. Per questo, come sempre, fatemi sapere cosa ne pensate: la meraviglia di questi temi sta nel fatto che riguardano tutti, nessuno escluso.
E ora, i consigli della settimana.
Pochi giorni fa si è celebrata la giornata della memoria: perché per ricordare la Shoah è stato scelto proprio il 27 gennaio?
Penso che uno dei migliori modi per ricordare l’Olocausto sia porre l’attenzione su un altro genocidio che sta avvenendo nel nostro tempo e di cui troppo poco si parla. La Cina da anni sta attuando una vera e propria politica di pulizia etnica contro l’etnia uigura, di fede musulmana, nella regione dello Xinjiang. Campi di concentramento, lavori forzati, alienazione e indottrinamento distopico: più si approfondisce questa storia, meno si può restare indifferenti. Vi lascio due approfondimenti: uno in italiano dell’ISPI (uno dei più importanti think-tank italiani), e uno in inglese fatto dannatamente bene da un think-tank australiano.
I temi che abbiamo trattato oggi sono stati discussi anche in un bellissimo video di Kurzgesagt, quello che avevo già definito come il miglior canale YouTube al mondo. Che cos’è il nichilismo ottimista?
Come vi avevo anticipato, prossima settimana avremo un ospite. Dialogherò con Luca Guidetti, docente di filosofia teoretica all’Università di Bologna. Discuteremo di filosofia, scienza, conoscenza e meraviglia. Sono sicuro che vi piacerà. Per non arrivare impreparati, vi consiglio questo bellissimo video di introduzione alla filosofia. Il video spiega il perché la filosofia non sia quella galleria di pazzie che spesso viene proposta alle scuole superiori.
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Delitto e castigo, di Fedor Dostoevskij
Delitto e castigo è stato il libro più importante della mia vita. Leggerlo a 16 anni è stato come ricevere uno schiaffo in faccia: mi ha fatto male, ma anche tanto bene. Va letto con calma, nel momento giusto: è un libro denso, complesso, potente. Le letture dei romanzi del buon Fedor sono state uno spartiacque fondamentale nella mia formazione: c’è un prima e un dopo Dostoevskij.
Se avete il coraggio di mettervi in gioco, è uno dei più bei libri che siano mai stati scritti.
Mussolini ha fatto anche cose buone, di Francesco Filippi
Mussolini ha davvero bonificato le paludi? È stato il Duce a dare una pensione a tutti gli italiani? Ha creato lui la cassa integrazione? A queste domande risponde Francesco Filippi, storico della mentalità, che ha scritto questo agile libretto, definibile come un vademecum contro la retorica neofascista. Con minuzia storica, Filippi risponde a queste argomentazioni portate, soprattutto in rete, dai nostalgici di Mussolini.
Questo libro è stato un piccolo caso editoriale. E lo consiglio perché, come lo stesso Filippi scrive, “pensare un ipotetico e falso passato positivo lascia una speranza nell’anima di chi è scontento del proprio presente.”
E anche questa settimana abbiamo finito. In questi giorni mi sono fermato a pensare di quanto sia incredibile che centinaia di persone ogni settimana si prendano 10 minuti per leggere quello che scrivo. E niente, grazie. Vi voglio bene.
Il numero della prossima settimana sarà un passo in avanti per me e per Autarkeia, aiutami a fare in modo che possa raggiungere più persone possibili. Fai una storia su Instagram con i tuoi passaggi preferiti di questa newsletter, condividi i numeri che ti sono piaciuti di più sugli altri social: spingi il bottone qui sotto!
Ci sentiamo domenica prossima,
Daniele
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