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Puoi leggere qui i numeri precedenti e qui il manifesto del progetto, questa è la mia pagina Instagram. Per condividere questo numero:
Buon anno! E ben tornati. Prima di iniziare il numero di oggi, vi devo dire alcune cose.
Ho iniziato un ciclo di lezioni al Liceo Galvani di Bologna grazie alla possibilità offertami dalla prof. Chiara Ferdori, dove riprendo temi di alcune newsletter e in cui insegno un po’ di filosofia e di teoria dell’argomentazione. Le tre lezioni da un’ora che propongo sono - in ordine:
Mi distraggo quindi non sono
Nessuno sa che cazzo sta facendo
Sei bello ma non te lo dico
Stanno andando molto bene e ho ricevuto bei feedback dai ragazzi e dalle ragazze! Mi piacerebbe portarle in altre scuole. Se insegnate, o se in generale siete interessati, scrivetemi rispondendo a questa mail.
Poi: ho un favore da chiedervi. Sto preparando un monologo che mi piacerebbe portare in un piccolo teatro. Se avete dei contatti, o per caso lavorate in quel mondo, mi sarebbe comodossima una mano! Vi ringrazio in anticipo.
Infine: se vi interessano tutte queste cose che vorrei fare, per rimanere aggiornati la cosa migliore è seguirmi su Instagram dove metto tutti gli updates.
Oggi parliamo di quello che credo sia uno dei punti più dolorosi delle scelte che si fanno crescendo. Scrivendo il numero mi sono reso conto che stava diventando davvero troppo lungo e denso. Ho deciso allora di dividerlo in due parti. Quella di oggi, la prima, si concentra sul concetto di ambizione.
A voi.
Dati abbastanza concreti danno forza all’idea che la mia generazione (e quelle ad essa vicina) fatichino e vivano una grande difficoltà nel superare sia in senso economico che in senso sociale e personale quella dei loro genitori. Se per i nostri genitori era la norma ottenere condizioni di vita (in senso ampio) migliori rispetto a quella dei nostri nonni, per noi questo è tutt’altro che scontato.
Ciononostante, le nostre ambizioni non sono minimamente calibrate con questi dati. Per quello che percepisco io (e come ho già detto la percezione soggettiva non ha forza eccessiva in un’argomentazione), siamo molto ambiziosi. Aspiriamo a cose estremamente difficili da realizzare, e riponiamo grossa parte del senso della nostra esistenza in obiettivi che spesso non sono né raggiungibili né ben definiti concretamente.
Tuttavia, ahimé, per fredda e crudele statistica è impossibile che tutti realizzino ciò che vogliono ottenere, soprattutto se le ambizioni sono così alte. Faccio un esempio. Supponiamo che un milione di giovani italiani ambiscano a diventare professori universitari e che ripongano moltissima parte del loro impegno esistenziale in questo obiettivo. I professori universitari in Italia sono meno di 40000. Supponiamo che mille di loro ce la facciano (e sto esagerando). I restanti rimaranno a bocca asciutta e saranno costretti a ricalibrarsi - e, ovviamente, a soffrirne. Ed è difficile pensare che le cose possano andare diversamente da così.
Ricapitolando: abbiamo da un lato una tendenza economica che vede la disuguaglianza generazionale in netta crescita (i giovani sono nettamente più poveri degli adulti e degli anziani), e dall’altro abbiamo una sempre maggiore ambizione collettiva pragmaticamente irrealizzabile per molti.1
Come si può immaginare, se si assume la realtà di questa situazione, è facile inferire la forte pressione e l’ansia di chi ci vive dentro - di cui la piú forte esemplificazione credo sia nel fenomeno degli hikikomori. Quest’ansia termina spesso nella delicata sospensione tra le aspettative dei propri genitori (già a partire dalla scelta delle scuole superiori) e la propria identità liquida caratteristica degli anni della gioventú, cioè quegli anni in cui giustamente non si sa davvero che cosa si vuole per sé stessi.
Il punto a cui voglio giungere dopo questa premessa, è che io, in totale sincerità, non faccio altro che crogiolarmi nella situazione contorta che ho appena descritto. Uno schiavo dell’ambizione impossibile io lo sono, ancora, totalmente. E sono pure migliorato rispetto a come ero.
Il problema credo piú doloroso di quando si è drogati di ambizione, e lo si può essere per narcisismo, per formazione familiare o per altri sfumati possibili motivi, è che ciò che si fa nel quotidiano non sarà mai all’altezza di quello che si vorrebbe diventare. Non sarà mai totalmente abbastanza.
E questo perchè si finisce per vivere in un precario e pericoloso equilibrio tra ambizioni impossibili da raggiungere e presenti che non ci soddisfano mai. E questo credo sia il lato piú scuro dell’ambizione e uno dei prezzi piú alti che essa fa pagare alla salute mentale.
Tuttavia, bisogna dire che l’ambizione (anche e soprattutto nel senso ossessivo che ho descritto) è condizione necessaria alla realizzazione delle cose “grandi”. Da questo non si scappa. Bisogna volere distinguersi, emergere, per raggiungere determinati risultati. Anche perché farlo non è per niente gratuito.
E giungiamo così alle prime conclusioni da cui partiremo nel prossimo numero. Credo sia fondamentale, quando si sente che la realizzazione della propria ambizione è una parte estremamente importante della propria felicità, fermarsi e riflettere a fondo su di essa. E farlo facendosi domande. Perchè dobbiamo (io per primo) prendere davvero consapevolezza dei rischi che questa religione dell’ambizione in cui viviamo come generazione comporta. Magari rimanerci dentro, ma con piú cognizione di causa.
Perché desidero così tanto raggiungere quell’obiettivo? Lo voglio per me o per brillare agli occhi della società? E mi importa davvero degli occhi della società? Ma soprattutto: sono pronto a sacrificare tempo, legami, relazioni, divertimenti e hobby per il raggiungimento di essa? Se colmare la mia ambizione significasse scambiare parte di queste cose con il raggiungimento dei miei grandi obiettivi, sarei comunque felice?
E questo perché, se queste domande non dovessimo farcele volontariamente, esse busseranno alla porta nel momento in cui faremo i primi concreti passi verso quelle nostre, tossiche, ambizioni.
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Prima di salutarvi ho due consigli per voi.
Questo dibattito tra il mio amato Oscar Giannino e Vittorio Emanuele Parsi, politologo. Vedere così tanta passione nel comunicare le proprie idee mi commuove tantissimo.
E poi un romanzo. Chi mi conosce sa che ho un debole per Pier Vittorio Tondelli. Se avete già letto Altri Libertini (se non lo avete fatto siete matti!), vi consiglio:
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Buon lavoro e buon inizio,
Daniele
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Sul perché l’ambizione collettiva sia cresciuta tanto fatico a dare una spiegazione netta. Sicuramente ci sono molte concause.