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Eccoci qui. Il numero di oggi è la seconda parte del precedente, che se non avete letto potete recuperare qui. In ogni modo, i primi due paragrafi li userò per riallacciarmi alla riflessione di quindici giorni fa per aiutare la lettura.
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Buona lettura.
Nella prima parte di Soldi e Famiglia abbiamo analizzato il concetto di ambizione con i rischi a esso associato. La tesi che ho provato a sostenere è che spesso non riflettiamo abbastanza sulle radici latenti della nostra voglia di essere di più in senso lavorativo, sociale ed economico.
Soprattutto, non ci chiediamo se davvero quel mondo possibile che rincorriamo sia un futuro che vogliamo vivere nel concreto. Non tanto perché quel futuro non ci piaccia, ma perché condizione necessaria alla realizzazione di quel futuro è il pagamento di un prezzo. La ricerca e soprattutto l’attualizzazione di ambizioni importanti non è gratuita, e costa (più che fatica e sudore che sono scontati in qualsiasi progetto, anzi nella vita in generale) perdite.
In sintesi: un’ambizione consapevole è un’ambizione che è conscia non solo di volere, ma che ha anche un’idea di ciò che potrebbe dover lasciare indietro nel realizzarsi.
Oggi facciamo un passo in avanti. Generalizzando lo sguardo, proverò a dipingere un quadro in cui l’ambizione si inserisce. Ci focalizzeremo più sull’ambiente che sull’individuo, usando i nostri discorsi per andare a scovare quello che è secondo me il nucleo problematico al centro del cosiddetto capitalismo.
Premessa: parlare di “capitalismo” è sempre pericoloso. Non tanto perché sia difficile capirsi su cosa intuitivamente si intenda con capitalismo, ma piuttosto perchè la parola ha sopra di sé un carico ideologico talmente ingombrante da rendere davvero difficile discuterne in modo razionale e pragmatico. Se vi interessa possiamo approfondire questo aspetto in un altro numero.
Motivo per cui non userò la parola capitalismo, ma parlerò di sistema economico e sociale in generale (sta poi a voi decidere e giudicare come e quanto questo discorso sia adatto a questo o a quel contesto).
Ora, facciamo il passo avanti: assumiamo di credere davvero nell’ambizione. Accade questo: mi convinco che il soddisfacimento degli obiettivi che mi sono prefissato da un punto di vista lavorativo sia parte importante della mia felicità futura, e sono fermamente convinto di ciò. Per questo, sono disposto a buttarmici dentro con grande forza di volontà. E allora: probabilmente dovrò partire - e questo sarà il primo prezzo.
Un sistema economico e sociale globalizzato come quello occidentale dove nasciamo e cresciamo chiede per prima cosa a uomini e donne che vogliano assumere ruoli di rilievo nella società l’internazionalizzazione. Il mondo va in quella direzione lì: e aggiungo, per fortuna. I confini, soprattutto quelli europei, sono sempre più sfumati.
Le persone si muovono da una nazione all’altra, imparano lingue, culture, conoscenza. E conoscere e vivere l’estero accresce in maniera così netta che ormai è un’esperienza che se si crede nell’ambizione è impossibile evitare, soprattutto in determinati contesti lavorativi (manageriali o universitari per esempio).
Diventa davvero difficile non partire. Almeno per un periodo medio-breve. Anche perché l’esperienza cambierà chi la fa in modi inaspettati, e penso che tutti abbiamo provato questo sulla nostra pelle o su quella di qualcuno a noi vicino.
Il problema è che partire - anche per relativamente poco - significa piantare semi al di fuori di casa (intesa in senso ampio). E nessuno può sapere come quei semi cresceranno. Le opportunità potrebbero arrivare, e potrebbero essere lontane, chiedendo sacrifici. E l’ambizione chiede necessariamente il cogliere le opportunità o non sarebbe tale, per definizione.
Allora per seguire coerentemente ciò in cui credo dovrò andarmene, anche in maniera definitiva se l’opportunità è grossa. Non penso che serva esplicitare cosa questo comporti. Dico solo: perdere per tempo indefinito quotidianità che erano condivise significa perdere pezzi importanti di ciò che si è. E quando questo accade è necessaria grande stabilità. Spesso è anche necessario ricalibrare le proprie gerarchie valoriali.
Voi direte: i legami li si può mantenere anche a distanza. Sarà anche così, ma per quanto? E davvero si può credere che questo non trasformi per sempre il legame stesso? Che siano amici, amiche o amori, poco cambia. La distanza logora i legami in generale. E più si colgono opportunità, più le distanze si creano.
Generalizzando: l'internazionalizzazione come condizione necessaria allo sviluppo di molte ambizioni giovanili diventa simbolo della scelta che abbiamo davanti come generazione. Le opportunità non sono solo tali. Le scelte implicano per definizioni perdite: se scelgo x su y, perdo y.
Non dobbiamo pensare solo a distanze geografiche. Soldi e famiglia sono due simboli. I soldi sono l’ambizione, la famiglia sono i legami in generali, quelli fondativi. Un impegno totale nel lavoro crea distanze, anche se si continua lavorare dove si è nati. Il compromesso tra i soldi e la famiglia (in senso simbolico, come abbiamo detto) è la domanda.
Ma quel compromesso è davvero possibile? Credo sia davvero difficile. Se scelgo x su y, perdo y. É difficile vederla diversamente. Ho visto tanti adulti provare quel compromesso, fallendo. Diventare cattivi genitori, che rendono tristi i figli ma che per primi sono tristi loro. Ho visto qualcun altro riuscirci, con tanto sudore, ma pagando un prezzo nell’ambizione, vedersi costretti a dire dei no che volevano esser dei si.
La soluzione non c’è. Ogni epoca ha i suoi problemi, diversi e tutti da rispettare. Tuttavia, riflettere su questi dilemmi credo sia il modo migliore per sviluppare criteri di scelta. Conoscersi in questi casi è fondamentale. Scegliere di pancia non è scegliere. Scegliere di pancia significa scegliere coi propri pregiudizi e preconcetti.
Nulla ci garantisce che le scelte che facciamo siano quelle corrette. Tuttavia, credo che la riflessione sia il miglior modo per evitare disastri.
E allora il motto sarà: riflettere per deliberare, come direbbe (parafrasato) qualcuno.
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