Eccomi qui. Vi devo qualche aggiornamento. Non sono ancora in grado di riprendere Autarkeia. Tuttavia, volevo mandarvi qualcosa da leggere, anche perché sto sbagliando qualsiasi cosa giusta che si possa fare riguardo al coltivare un progetto online. In ogni modo, vi ricordo che qui potete leggere tutti i numeri passati di Autarkeia (che sono ormai una quarantina) e qui altri miei testi provenienti da concorsi e scrittura creativa.
Ho scritto questo breve saggetto per una relazione universitaria. Forse in alcuni punti è un po’ tecnico, ma ho messo le note per superare questo ostacolo e renderlo comprensibile a più persone possibili. Penso sia un bel lavoro. A voi, vi voglio bene e grazie.
Nel Critone, uno scritto platonico giovanile, Platone mette in scena un dialogo tra Socrate e, appunto, Critone, suo discepolo. Il contesto dialogico è subito successivo alla condanna a morte di Socrate, da poco avvenuta. In attesa dell’attuazione della sentenza, Critone tenta di convincere Socrate a fuggire per evitare la morte e la derisione pubblica che i suoi amici e conoscenti dovrebbero subire da parte del popolo dopo la condanna. Tuttavia, Critone tenta invano: Socrate non ha alcuna intenzione di scappare dalla pena capitale che la sua città sta per infliggergli. Tra le varie argomentazioni socratiche, spicca una prosopopea1 delle leggi che Platone introduce mediante il personaggio Socrate. Nel dialogo viene sostenuto che il nomos, il diritto umano, abbia fornito a Socrate un sistema civile e politico in cui il filosofo è stato inserito per tutta la vita. Sfuggire ad esso significherebbe abdicare all’ordine civile che ha caratterizzato la sua esistenza: sarebbe segno di ingratitudine e di ingiustizia. Ma non solo: Socrate trova coerente che siano proprio le leggi umane a introdurlo alle loro sorelle, le leggi divine. E allora Critone si rende conto di essere impotente di fronte alle argomentazioni di Socrate. E infatti egli berrà la cicuta: condannato per empietà e per aver corrotto le nuove generazioni. Le motivazioni reali per cui viene condannato sono controverse: rancori antichi, diffidenze e pregiudizi imperversavano nella società ateniese similmente a come accade oggi. Accanto a queste abbiamo le motivazioni formali che sono religiose e politiche, oltre che personali. Lo stile di vita socratico e il suo atteggiamento inquisitorio e scettico (in senso antidogmatico) generarono inevitabilmente malumori e antipatie. Nell’attitudine di Socrate verso vita pratica e teorica si dischiudono indipendenza e libertà di pensiero sovversive. Ed è proprio quella libertà profonda che gli è costata la vita.
In questo atto fondativo del pensiero occidentale possiamo già individuare alcuni elementi che si riveleranno centrali nella celebre querelle della libertas philosophandi.2 Nel processo e nelle argomentazioni di Socrate troviamo noccioli concettuali che rimarranno più di un millennio dopo ancora centrali nel dibattito sulla indipendenza della filosofia che incendierà XVII e XVIII secolo: il rapporto tra filosofia e religione, tra religione e politica, tra nomos e leggi divine. Nella condanna a Socrate infatti sono nascoste, sotto i motivi religiosi, motivazioni politiche. La religione viene strumentalizzata per motivi pragmatici. E questo perché la libertà del “primo filosofo” non è più compatibile con le condizioni sociopolitiche contingenti in cui egli vive. E questo Socrate lo comprende bene. Se da un lato le leggi contingenti in cui è nato e cresciuto non gli permettono di continuare la sua ricerca speculativa, dall’altro la fedeltà alla polis gli impedisce di oltrepassarle. Ed è allora che la conclusione logica più coerente è la morte. Per questi motivi, possiamo dire che Socrate è la prima vittima della lotta per la libertà del filosofare e che già nel suo processo si possono notare le problematiche germinali del dibattito futuro.
Tuttavia, come è ovvio, tra la condanna socratica e il dibattito sulla libertas philosophandi intercorrono differenze fondative: per esempio, il diverso concetto di verità e l’istituzionalizzazione del dibattito. La parola greca aletheia, come spiega Heidegger, sta a indicare uno svelamento: giungere alla verità significa smascherare le apparenze fenomeniche3 per giungere a nuclei concettuali immutabili e necessariamente validi. La parola veritas invece va connessa al concetto di verità rivelata: la verità è tutta contenuta nella parola di Dio, di cui abbiamo testimonianza nei libri sacri. Da questa differenza concettuale è già possibile scorgere come la teologia necessariamente finirà per scontrarsi con il progresso della filosofia verso l’indipendenza teorica nella modernità. Se la veritas è già stata rilevata, la ricerca filosofica è chiarificazione e comprensione, non scoperta. Ne consegue che, infatti, fino all’epoca di Galilei, Cartesio e Spinoza è il concetto di auctoritas a dominare i dibattiti: l’autorità scritturale e lo strumento concettuale aristotelico utilizzato per comprendere la parola di Dio sono i punti di riferimento di qualsiasi dibattito. La filosofia diviene così teologia razionale: attrezzo teorico che deve sostenere e dimostrare le verità divine. Per rompere questo paradigma tre autori sono fondamentali, quelli citati non a caso poc’anzi. Incominciando da Galileo, nello scontro con l’istituzione ecclesiastica e nel processo che ne consegue non può che apparire lo spettro di Socrate. Anche nel caso di Galilei, la condanna e l’abiura segneranno un’epoca e si riveleranno come momenti fondativi della modernità. L’impresa concettuale di Galileo e le sue riflessioni sul rapporto tra filosofia e religione saranno fondamentali per i secoli successivi. Citando Cassirer, “Se Galileo fosse morto bambino, la modernità non sarebbe quella che conosciamo oggi”. Nell’opera dello scienziato pisano la libertas philosophandi è prerequisito epistemologico.4 Il libro della natura è scritto in caratteri matematici e Dio ha fornito all’uomo gli strumenti per comprenderlo. La libertà del pensatore è necessaria per giungere alla comprensione della realtà. Le vicende di Galileo vengono seguite in modo attento dal nostro secondo protagonista, Cartesio: vedendone le disavventure con la Chiesa, Descartes decide di non pubblicare i suoi testi in cui abbraccia le tesi eliocentriche copernicane. Ciononostante, nel Discorso sul Metodo pubblicato in francese per raggiungere il maggior numero possibile di lettori, lo stile autobiografico dell'autore si esprime spesso, come diremmo oggi, in toni anti-establishment. La rivoluzione cartesiana passa per un superamento della filosofia di scuola: ciò che emerge dalle parole di Descartes è la necessità di un superamento dell’impostazione scolastico-tomista.5 La verbosità e l’incertezza dei dibattiti accademici andavano sradicate, in favore di un nuovo metodo basato sui numeri e sulle dimostrazioni geometrico-matematiche. La metafisica classica, e quindi la teologia, entrano in crisi: crisi che raggiunge il suo culmine in Baruch Spinoza.
In Spinoza è il concetto stesso di Dio a essere ripensato. La divinità non trascende il reale, ne è causa immanente. Il Deus sive Natura causa sui contempla e ama se stesso mediante la mente dell’uomo: il quale è quindi capace di penetrare l’essenza divina. La filosofia è tutt’altra cosa che teologia razionale: non è ermeneutica biblica o esegesi testamentaria. Il concetto di verità assume nuove sfumature e ne perde di precedenti. La bibbia non insegna verità tout court, ma verità morali. Il compito del filosofo è comprendere mediante dimostrazioni indubitabili la natura nella sua perfezione. Per realitatem et perfectionem idem intelligo: la concezione antropomorfica della divinità concepita umanamente come ente legislatore va superata. Il cristianesimo va compreso e interpretato anche come fenomeno storico. È necessario separare ciò che dipende dalle contingenze storico-culturali da ciò che è vero in maniera indubitabile e atemporale. La filosofia deve indagare il mondo in quest’ottica e lo deve fare liberamente. Ne va della sicurezza stessa dello Stato. L’alleanza tra religione e politica si muove strumentalmente verso la trasformazione in superstizione. La concezione ingenua di Dio è intuitiva e semplice da comprendere: per questo può essere usata per manovrare i cittadini. Ma attenzione: un popolo ingannato rischia sempre di esplodere in sommossa.
Ed è così che vediamo chiaramente il perché la riflessione spinoziana apra le porta alle emancipazioni e alle rivoluzioni sociali, politiche e culturali del XVIII secolo.
“La prosopopea (προσωποποιία, 'personificazione', dal greco antico prósopon, 'persona', e poiéo, 'faccio') è una figura retorica basata sulla personificazione di oggetti inanimati o di astrazioni, come la Patria o la Gloria. È prosopopea anche il dar voce a persone defunte. È associabile alla favola, componimento breve in cui si dà voce ad animali o oggetti".
Da tradurre come libertà di filosofare. Il verbo filosofare è inteso qui in senso antico: interrogare il mondo in generale, senza vincoli e doveri verso autorità ideologiche. La questione della libertas philosophandi si incendia a partire dalla fine del XVI secolo e riguarda inizialmente la definizione dei confini tra teologia e filosofia. Esso nell’Illuminismo finirà per allargarsi a molto di più.
Fenomenico, ciò che appare: da fenomeno, a sua volta derivante da fainomai, verbo greco tradotto come apparire.
Cioè è condizione necessaria alla ricerca speculativa in generale.
Scuola dominante fino alle rivoluzione di XVI e XVII secolo: basata sulla reinterpretazione in chiave cristiana della filosofia di Aristotele (cioè l’auctoritas per eccellenza).
Daniele tu saresti già pronto a tenere lezioni all'università, dico sul serio! E già pronto anche per insegnare alla scuola superiore (cosa che forse è ancora più difficile..). Questo lo dico perchè ti ho visto all'opera l'anno scorso con quelle mia quinta liceo, che hai saputo coinvolgere come se tu avessi anni di esperienza! Bravo davvero. E complimenti per questo saggio.