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Eccoci. Dopo due numeri densi e astratti oggi passiamo a un numero più concreto. Scusate il ritardo, ma come ho spiegato su Instagram, questo weekend sono tornato in Italia e sono stato un po’ sopraffatto dagli eventi.
L’anno scorso scrissi un numero intitolato Confessioni di un carnivoro ipocrita in cui attaccavo in maniera abbastanza cinica e spietata tutte le ipocrisie e contraddizioni nascoste dietro la leggerezza con cui ho sempre mangiato la carne. Oggi contrappongo a quel numero un tentativo opposto. Come si può legittimare il proprio mangiare la carne? Si può giustificare l’essere carnivori senza contraddizioni? Dove si può arrivare?
Vediamo.
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L'uomo è un parassita della mucca; questa è probabilmente la definizione che un non-uomo darebbe dell'uomo nella sua zoologia.
Milan Kundera
La riflessione sugli animali è stata una costante della mia vita recente. Da quando studio filosofia, poche cose mi hanno affascinato quanto riflettere sulle altre forme di vita. Come dico spesso, se mai prenderò una seconda laurea, la prenderò in scienze naturali. Ho sempre vissuto in mezzo ad animali domestici in un paese circondato da boschi in cui gli incontri con cerbiatti e cinghiali sono più che frequenti. Ho passato ore della mia vita a fissare oche, pesci, ragni e a coccolare cani e gatti. Grazie ai progressi della scienza contemporanea, abbiamo imparato a considerare gli animali in tutta la loro complessità, etologica (di comportamento) e evolutiva, e questo ci permette ( e mi ha permesso) di apprezzarne straordinarietà e bellezza. Ovviamente le cose non sono sempre state così. Per secoli abbiamo considerato gli animali alla stregua di automi agitati da movimenti meccanici. Celebre è la teoria di Cartesio, che nel ‘600 descriveva gli animali come ciechi meccanismi.
Tuttavia, nonostante le ore e ore passate a riflettere su questa o quella specie, uno dei pensieri più dirompenti su questi temi che abbia mai attraversato la mia mente me lo disse una persona a me vicina e che stimo molto, mentre era quasi sovrappensiero, durante una visita insieme all’acquario di Barcellona. Quella frase che disse mi colpì talmente tanto che ancora oggi (ed è passato qualche anno) mi ronza in testa e attacca le mie argomentazioni. L’aneddoto è il seguente. Stavamo attraversando una sala costruita a mo’ di tubo sott’acqua, di cui vi metto una foto.
Io osservavo le varie specie che nuotavano tranquille, totalmente noncuranti degli umani che li fotografavano in maniera ossessiva, azione a cui assistevano tutti i giorni della loro vita. Mentre li studiavo attentamente nelle loro forme, ero pervaso, come mi capita ogni volta che visito zoo e acquari, da un senso di angoscia. Guardavo negli occhi quegli animali e percepivo un senso di inquietudine, di innaturalezza. In quei luoghi ho sempre percepito aria di umiliazione, un’eccesso degli uomini che si permettono di fare qualcosa di cui non hanno il diritto. Catturare, crescere e far riprodurre animali chiusi in gabbie di plastica e vetro, così che essi possano venir fotografati ed essere diletto dei bambini.
In quel momento si affianca a me il mio amico, con sguardo annoiato. Io mi giro verso di lui e, con la spocchia dell’intellettuale in erba che si sente superiore perché perso nelle sue riflessioni da quattro soldi, inizio uno sproloquio per spiegare il mio senso di angoscia rispetto ad acquari e zoo. Dopo qualche minuto il mio amico si volta, mi guarda con poco trasporto, e mi dice:
Non credi che loro avrebbero fatto lo stesso con noi?
La frase mi devasta. Inizio a sudare freddo e a cercare una risposta convincente. Non la trovo. Mi giro e tento di cambiare discorso, ma le parole mi si fermano in gola. Sussurro un “hai ragione, è un ottimo punto”, e scappo verso la sala successiva.
Ho voluto iniziare il numero di oggi con questa storia per mostrare come le cose siano complesse. La letteratura scientifica sugli animali è sterminata e le argomentazioni che si possono produrre sono ancora di più. Mangiare o non mangiare carne, ritenere legittimi o meno zoo e acquari, giustificare o no la caccia sono solo alcune delle mille sfaccettature etiche e culturali che la riflessione sulle altre specie può assumere. Oggi proverò ad argomentare a favore della tesi opposta a quella che avevo sostenuto un anno fa, per mettermi alla prova e stimolare un dibattito. La necessità di queste riflessioni nasce proprio da quel pomeriggio all’acquario di Barcellona.
Enuncerò ora la mia tesi, approfondendone poi le argomentazioni. Gli uomini allevano animali per il proprio sostentamento da millenni, secondo quella che è diventata una vera e propria istituzione culturale. La proliferazione di determinate specie in numeri incredibili (in questo momento, per esempio, sulla Terra sono presenti circa 26 miliardi di polli vivi) è dovuta proprio al loro allevamento da parte umana e quindi alla riproduzione massiva che siamo noi a indurre e sostentare. Di conseguenza, da un punto di vista meramente statistico, la dieta carnivora degli esseri umani è la causa principale del successo (in senso evolutivo) delle specie che alleviamo e mangiamo. Si potrebbe allora sostenere che agli animali allevati convenga che noi li mangiamo. Ma le cose sono ovviamente più complicate di così.
La rivoluzione tecnologica dell’ultimo secolo ha permesso la nascita dei famigerati allevamenti intensivi. In essi gli animali vengono utilizzati come fossero elementi di una qualsiasi catena di produzione automizzata. Vengono sì considerati animali, ma nel senso cartesiano che dicevamo prima. Anche se, ahimé, la scienza ha dimostrato inequivocabilmente che pensare agli animali come ad automi, in particolare poi in riferimento a mammiferi e uccelli, è del tutto insostenibile e anacronistico. Mi viene da dire che gli allevamenti intensivi appaiono difficili da difendere rispetto a qualsiasi linea argomentativa che non sia quella strettamente economica (cioè che forniscono lavoro a moltissime persone). Tuttavia, se vediamo quanto inquinamento sia legato agli allevamenti intensivi, per poi porre sulla bilancia i danni stimati dell’imminente cambiamento climatico anche sul piano finanziario questo tipo di sfruttamento degli animali appare, nuovamente, ingiustificato.
Tuttavia, se guardiamo ad allevamenti in cui il benessere animale è rispettato, l’argomentazione per cui a quegli animali convenga che vi siano uomini carnivori sembra reggere. Potrebbe infatti essere sostenuto che in essi la qualità della vita è addirittura migliore che in natura, se diamo per scontato che per gli animali valori come quello della libertà non abbiano il minimo significato. Sappiamo infatti quanto la vita in natura possa essere crudele (penso sempre a quella famosa vespa che inietta le proprie larve all’interno della preda viva così che esse crescano cibandosi delle sue carni fresche) mentre gli uomini proteggono dai predatori le bestie in cattività, e forniscono loro cure e cibo.
La qualità della vita dell’animale è fondamentale all’interno di questa argomentazione, ed è il motivo per cui ho sottolineato come questi non si applichi agli allevamenti intensivi. Nel momento in cui constatiamo che gli animali non sono automi adatti a essere inseriti come ingranaggi all’interno di un’industria, non ci rimane che provare nel tentativo di legittimare moralmente l’allevamento e il consumo di carne da provenienze sostenibili. Ciò su cui bisogna riflettere da un punto di vista filosofico è questo: la non-esistenza di un animale è preferibile a una sua nascita volta esclusivamente al fine di sostentare l’uomo? La risposta secondo me sta proprio nella qualità di quella vita. Penso che basti vedere qualche video-report di allevamenti intensivi di mucche e maiali per convincersi che una non-esistenza sia ad essi preferibile. Ma se escludiamo questi, la risposta si fa più sfumata e meno netta: soprattutto nel momento in cui la confrontiamo con la vita che quegli animali avrebbero in natura.
Per quanto possa sembrare paradossale, la conclusione logica di questa argomentazione è che agli animali convenga che esistano carnivori, se e solo se quei carnivori sono interessati al benessere negli allevamenti. Purtroppo sappiamo benissimo che le cose non stanno così. Nel mondo ipotetico che ho appena disegnato, dovremmo eliminare gli allevamenti intensivi, ma questo comporterebbe un crollo nell’offerta di carne e un innalzamento brusco dei prezzi. A meno che, e si torna sempre lì, non diminuisca drasticamente anche la domanda. Insomma, da qui non si scappa: il consumo di carne va diminuito, anche se non è necessario (anche moralmente come abbiamo visto) eliminarlo totalmente per principio.
Non ci rimane allora che dire questo: è sì forse possibile legittimare il consumo della carne, ma con tante condizioni e precisazioni.
Come avrete immaginato, su questi temi ho costanti ripensamenti e cambi di idea. Per correttezza, vi segnalo questo articolo da cui ho preso alcuni spunti (e di cui ho criticato molte posizioni, in realtà). Se volete controbattere alle mie argomentazioni o offrire un differente punto di vista, scriveteci! Ci rende felici e ci arricchisce.
E ora, i consigli.
Due settimane fa abbiamo parlato di ritorno della storia. Un concetto che avrei potuto citare è la celebre idea di fine della storia di Fukuyama. Quella di Fukuyama è una sorta di teleologia pragmatica che individua nella democrazia liberale la forma di organizzazione statuale migliore che l’uomo possa ideare per auto-organizzarsi. Di conseguenza, dopo la vittoria del fronte occidentale durante la guerra fredda, la democrazia liberale è destinata ad affermarsi come forma politica nei prossimi decenni. Se volete approfondire, vi lascio un articolo.
“Despots rarely get told that their stupid ideas are stupid, or that their ill-conceived wars are likely to be catastrophic. Offering honest criticism is a deadly game and most advisers avoid doing so”. Brian Klaas è uno dei più importanti politologi al mondo che ha dedicato la sua vita allo studio degli autoritarismi e alle figure dei dittatori. In questo pezzo sul the Atlantic argomenta di come secondo lui Putin sia caduto nella trappola del dittatore, contrastando l’idea diffusa che vede l’autocrate russo come un freddo e razionale calcolatore sempre un passo avanti ai suoi avversari.
Cambiamo argomento. Quando arriva il momento di prendere antidepressivi? Come si comprende che la propria non è tristezza moderata ma depressione clinica? Nonostante le innumerevoli prove scientifiche che dimostrano l’efficacia degli psicofarmaci, su di essi ancora pesa uno stigma sociale che ne disincentiva l’utilizzo. La scelta complessa che si dischiude a seguito di domande come quelle sopra è stata analizzata da un pezzo competente su Aeon scritto da una importante psichiatra.
Un altro suggerimento sull’Ucraina. Vi avevo già parlato di quel sito stupendo che è Our world in Data. In occasione del conflitto, hanno creato una pagina utilissima che racchiude tutti i dati e i grafici che possono servire per comprendere in maniera più profonda e fattuale le radici della guerra e le proporzioni delle forze coinvolte.
Che effetti stanno avendo le sanzioni occidentali sulla Russia? La stretta della censura da parte del regime di Putin unito al blocco di molti social network nel paese rende difficile conoscere le conseguenze che i russi stanno avendo sulla loro quotidianità. Una chicca a riguardo sono i video di NFKRZ, youtuber russo che per lavoro racconta da anni in un inglese perfetto la vita di tutti i giorni in Russia. Nelle ultime settimane ha pubblicato un paio di video abbastanza disarmanti, e mentre scrivevo questi consigli ha annunciato di essere scappato in Georgia.
Ti è piaciuto questo numero? Dietro ci sono io, Daniele. Studio filosofia a Bologna (anche se ora mi trovo a Warwick, in UK) e gestisco con Giorgio il progetto. Autarkeia vive dell’apprezzamento della community. Vorresti supportare il progetto e valorizzare le decine di ore settimanali che stanno dietro a ogni numero? Ci sono due modi per farlo:
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La solitudine del cittadino globale, di Zygmunt Bauman
Bauman è probabilmente il sociologo più famoso al mondo. Probabilmente lo avrete già sentito in relazione alla sua teoria riguardo alla società liquida. Questo è il suo primo libro che lessi, e mi colpì molto, anche se su molte cose non ero d’accordo. Da questo libro nacque una delle newsletter dello scorso anno, É tutta colpa tua.
La guerra delle salamandre, di Karel Capek
In una baia dei mari del Sud vengono per caso scoperte delle salamandre “antropomorfe” estremamente intelligenti. Gli umani decidono di addestrarle e di sfruttarle come schiave. Col passare del tempo però, le salamandre si organizzano, collaborano, e decidono di ribellarsi: fino a costruire una civiltà parallela che, come si deduce dal titolo, farà esplodere una guerra. Magistrale metafora politica, il suo autore, Capek, è l’intellettuale che ha coniato il termine robot, con un altro suo romanzo, che avrà immensa fortuna.
E abbiamo finito! Se il numero vi è piaciuto, aiutateci a diffonderlo.
Abbraccio e buon lavoro,
Daniele
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