E tu, che depressione sei?
Categorie della tristezza: la costante lotta tra chi sei e chi vorresti essere
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Eccoci qui: dopo l’intervista di settimana scorsa, oggi torniamo con un numero canonico. Il tema di oggi l’abbiamo scelto assieme su Instagram: è stato un esperimento riuscito, sono contento. Ho un sacco di idee per scegliere in futuro con voi i temi domenicali: seguimi lì e le scoprirai! La riflessione di oggi uscirà anche su Ariosteo Magazine, una bella rivista gestita da studenti: vi consiglio di darci un’occhiata!
Oggi parliamo di depressione e tristezza (l’avete deciso voi quindi non potete accusarmi di essere pesante). Il numero eviterà consapevolmente due temi che sembrerebbero naturalmente legati alla trattazione: la depressione in senso psico-patologico, e il “senso della vita”. Di entrambi non parlerò, del primo perché non ne ho le competenze, del secondo perchè ho già detto quello che penso a riguardo in “Imparare a morire”.
Fatte le solite premesse, cominciamo: che depressione sei tu?
“La disperazione corrisponde a un modo di stare al mondo. E, nella disperazione, al mondo si sta male.”
Salvatore Natoli
Cosa significa depressione?
Nel momento in cui ci soffermiamo a esaminare la parola, il significato che siamo soliti darle diviene strano. De-pressione letteralmente indica qualcosa di abbassato, spinto a un livello più basso, premuto in giù: infatti parliamo di depressione geologica quando un avvallamento di terra si trova sotto il livello del mare. La parola deriva dal verbo latino deprimere: da cui a sua volta vengono il nome depressio, e l’aggettivo depressus. Preparando questo numero, sono rimasto sorpreso dall’uso che gli antichi facevano di questa parola. Gli esempi sono illuminanti: per il verbo, vi è deprimere fossam, scavare una fossa; per l’aggettivo, depressa domus: ad essere depressa è una casa, poiché posta in basso; il nome è usato molto raramente. Si noti che vi è anche un senso figurato, quasi esclusivamente verbale: il verbo viene usato a volte anche col senso di screditare, avvilire, ma l’esempio è deprimere vocem, abbassare la voce.
Riflettendoci un secondo, in tutto questo c’è qualcosa che manca. Sfogliando il vocabolario latino mi sono reso conto che non vi è traccia del riflessivo: del deprimersi. Effettivamente, questa idea che a noi sembra ovvia e familiare, è del tutto controintuitiva. Che senso ha spingere se stessi in basso? Che il soggetto si auto-abbassi di livello, l’auto-premersi in giù? In questo senso, l’assenza di un uso diffuso del riflessivo nel verbo latino appare comprensibile.
Tuttavia, nella lingua comune di oggi parlare di depressione tendenzialmente significa parlare di una persona che “si deprime”, e quindi che si spinge in basso, che si abbassa di livello da sola: e che è quindi depressa. E oggi è proprio di questa specifica interpretazione riflessiva della parola che vorrei parlare.
Prendiamola apparentemente un po’ da lontano, parlando di identità.
Osservandoci sembra semplice constatare che il nostro io sia uno e definito. Ad aiutarci in questa autodefinizione accorre il nostro nome proprio: appiccicato addosso come un’etichetta, il mio nome mi permette di dare maggiore consistenza alla mia identità. É più facile definirmi, avendo un nome: io sono Daniele, Daniele è ciò che sono, ciò che sono stato e ciò che sarò. E su questo non ho dubbi. In più, in quanto essere umano, so di essere Daniele, so che sarò Daniele e so che sono stato Daniele: e questo perché l’io di ogni persona è un io cosciente. E in quanto cosciente di se stessa, ogni persona può prevedere quello che sarà e immaginare quello che potrebbe essere.
Questa capacità umana di previsione e di immaginazione di mondi possibili, e quindi di identità differenti da quella corrente, è un concetto su cui vale la pena soffermarsi. Perché è proprio questa capacità che causa in noi una moltiplicazione e una frammentazione dell'io: davanti all’identità concreta e reale, nelle nostre menti si distendono innumerevoli identità possibili con cui, inevitabilmente, ci confrontiamo. Vediamone alcune: a confronto con ciò che sono, mi appare ciò che vorrei essere e ciò che dovrei essere, ma anche ciò che sarò in futuro e ciò che sono stato in passato; e, in ultimo, ciò che penso appaia di me agli occhi degli altri.
Questi io possibili spesso hanno funzione positiva: ti spronano a muoverti nella direzione giusta, quella direzione che può portare a costruirti nella maniera più consona a ciò che sei. Tuttavia, vi è anche il lato oscuro della medaglia. Il nostro io effettivo e presente è in un perenne e dinamico confronto con ciò che potrebbe essere: ed è proprio da qui che sorge un’ampia categoria umana, di cui mi sento parte, quella dei “grandi scontenti di sé”. A proposito mi viene in mente un passo di Nietzsche:
La maggior parte degli uomini devono conquistarla, la fede in se stessi: tutto quel che di buono, di rimarchevole e di grande essi fanno è in primo luogo un argomento contro lo scettico che alberga in loro: è necessario convincere o persuadere costui, e per fare questo occorre quasi del genio. Sono i grandi scontenti di sé.
E chi è il costui di cui parla Nietzsche? Non è altro che una di quelle identità possibili che potrei essere, ma non sono. Effettivamente questo confronto costante può rivelarsi logorante. Rischia di accecarci, di celare i nostri pregi e ingigantire i nostri difetti: ma non agli occhi degli altri, ai nostri occhi. Ed ecco che quel confronto perpetuo, quella moltiplicazione dell’io, diventa un peso, un qualcosa che ci schiaccia, che ci porta in basso, che ci de-prime.
Il confronto costante con ciò che potrei essere, ma che non sono, rischia di dissolvere la mia identità, impedendomi di guardarmi in faccia: proprio come nel quadro di Magritte. Riponiamoci ora la domanda che ci eravamo posti all’inizio: come mai le persone si auto-abbassano di livello? Perchè spesso ci si auto-preme in giù, ci si deprime?
Quel confronto con gli io possibili ci sfinisce. Veniamo schiacciati da ciò che potremmo essere: ci sembra sempre di non fare abbastanza, di non essere abbastanza, non ci sentiamo sufficientemente belli o intelligenti o furbi. Sorge in noi un costante svilimento del sé, che non fa che spingerci in basso, in giù. Ma non c’è alcuna nemesi malvagia che ci odia, tutto questo ce lo facciamo da soli: ci auto-sabotiamo. Smettiamo di apprezzare in noi la benché minima qualità, e ci arrendiamo. Si spiega così il significato della parola depressione, che ora appare come una parola molto più sensata. Quando si è depressi, ci si è arresi a rimanere nella fossa in cui ci si è nascosti. “Non sono al livello di ciò che vorrei e dovrei essere”, e allora mi deprimo: mi abbasso. Come uscire da questa situazione? Vediamo.
Aristotele sosteneva che una virtù fosse una qualità posta in mezzo a due vizi opposti, un equilibrio virtuoso tra due modi ingiusti di essere. Per capire, facciamo un esempio: che cos’è il coraggio? Prendiamo i due vizi opposti. Il vile eccede nella paura mentre il temerario eccede nell’ardimento. Entrambi sono vizi, e, come abbiamo detto, la virtù sta nel mezzo tra i due: il coraggioso è allora colui che prova paura e ardimento in giusta misura e secondo un corretto uso della ragione - colui che sta nel mezzo tra il vile e il temerario.
In questo discorso una delle virtù trattate da Aristotele è la sincerità su se stessi. Essa, come tutte le virtù, sta nel mezzo tra due vizi: da un lato la vanità e la millanteria, cioè il vizio di chi si attribuisce più valore di quel che ha realmente; dall’altro chi si sminuisce in maniera eccessiva. Perché questo ci interessa? Perché ciò che Aristotele sottolinea fortemente è che il dipingersi come peggiori di quello che si è in realtà è un difetto pari a quello opposto. Non vi è alcuna virtù nello sminuirsi. Non è qualcosa di positivo credersi e mostrarsi di meno di quel che si é: la virtù sta nella sincerità su se stessi, non in altro.
Con questo non voglio dire che non sia giusto essere umili, anche perché “umili” ha tutt’altro significato. L’umiltà è il saper riconoscere i propri limiti, non l’aumentarli per auto-sabotarsi. Essere umili significa essere sinceri, non de-primersi, spingersi in basso. Infatti bisogna essere sinceri, guardarsi in faccia: riconoscere onestamente il proprio valore, senza farsi seppellire da ciò che si potrebbe essere - ma non si è. Essere orgogliosi e consci del bello che vi è in noi, e quindi delle nostre qualità, è una virtù. Non vi è nulla da nascondere, da auto-celarsi. E tutto questo non per esporre se stessi come trofei, ma per acquisire consapevolezza, per costruire una solidità nella quotidianità: per dare sostanza a quel fragile nucleo che è la nostra identità.
Riconoscendo i propri valori, e smettendo di volere essere qualcosa che non si è, ci si riesce ad innalzare dalla fossa in cui ci si era spinti: in questo modo si può uscire sulle proprie gambe da quel buio in cui ci si era nascosti. Si può risalire con gli stessi strumenti con cui si era discesi da quella depressione (geologica o interiore che sia) in cui ci eravamo seppelliti.
E la riflessione finisce qui. Se l’hai apprezzata e pensi possa interessare e aiutare anche altre persone in questo momento difficile per tutti, condividila!
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E ora, come sempre, i consigli.
Nessuno sta bene alle quattro del mattino: un percorso nella letteratura femminile sulla tristezza della notte più profonda; un bellissimo pezzo di Sara De Simone, per Il Tascabile.
Qualche settimana fa vi avevo consigliato il nuovo podcast di Oscar Giannino. In una delle ultime puntate a Don Chisciotte c’è stato un dibattito molto interessante con Carlo Calenda. Se avete un’oretta, vi consiglio di ascoltarlo, a prescindere dalle vostre idee politiche: è un confronto sulla storia, l’economia e l’industria italiana.
Ritornando a ciò di cui abbiamo parlato settimana scorsa, sul NYT Magazine Jessica Benko ha raccontato in una straordinaria long read la prigione di Halden, in Norvegia, confrontandola con le prigioni americane. Pensate che in Norvegia non solo è abolita la pena di morte, ma dal 1981 anche l’ergastolo.
Cosa succederebbe se uscissimo dall’Euro? Quali sono gli scenari possibili? Perché questi scenari sono difficili da immaginare? Un bel video di Giorgio De Marco di Whats'up Economy.
Sono usciti i finalisti del World Press Photo, il più importante concorso di fotogiornalismo al mondo. Sono fotografie straordinarie, sfogliatele e rimarrete a bocca aperta. Vi lascio la mia preferita.
Per le decine di persone nuove, spiego velocemente la struttura di Autarkeia. Dopo la riflessione iniziale, ogni settimana propongo consigli di lettura e di visione. Infine, due consigli di lettura chiudono il numero. Ecco i libri.
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Bartleby lo scrivano, di Herman Melville
Oltre ad aver scritto uno dei più potenti romanzi nella storia dell’umanità, Melville ha scritto molte altre pagine straordinarie. Questo è probabilmente il suo racconto più celebre, precursore dell’esistenzialismo e dell’assurdo in letteratura. A metà tra Kafka e Camus, Melville in questo racconto descrive un personaggio disilluso sulla volontà individuale, che si esprime esclusivamente per “preferenze”. Vi consiglio questa edizione perché è arricchita da una bella introduzione (che come in ogni libro di letteratura va letta dopo il libro), le lettere di Melville e le interpretazioni più importanti del racconto.
Stampe e disegni, di M. C. Escher
Escher è probabilmente il mio artista preferito (le sue opere hanno accompagnato molti dei miei numeri). Questa edizione raccoglie le sue litografie più importanti, in buonissima qualità, e soprattutto a un prezzo molto accessibile. Ogni opera è accompagnata da una breve didascalia.
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Infine, la scorsa settimana ho tenuto una lezione ad alcune ragazze e ragazzi del liceo Galvani sul rapporto tra distrazione e Big Data, di cui avevo già parlato qui. Mi piace moltissimo l’idea di fare sensibilizzazione su questi temi: nel caso la cosa vi interessasse (sia da studenti che da insegnanti), scrivetemi rispondendo a questa mail.
Noi come sempre ci sentiamo domenica prossima,
Daniele
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